Ho conosciuto Gorbaciov, l’uomo che non fu all’altezza del compito che la storia gli aveva assegnato

di Dario Rivolta * –

Quando muore un personaggio famoso, i “coccodrilli” si sprecano e così è stato in questi giorni alla notizia della morte di Mikhail Sergeevic Gorbaciov. Solitamente, per pietà umana o per conformismo, il personaggio che muore è sempre dipinto con tratti positivi, anche se magari gli aspetti negativi non gli sono mancati.
L’ultimo presidente dell’Unione Sovietica ebbe la ventura di essere apprezzato già in vita, ai limiti dell’adulazione nei Paesi esteri, salvo essere dimenticato, se non addirittura disprezzato, nel suo stesso Paese.
Io incontrai Gorbaciov due volte: la prima quando ancora deteneva il potere e accadde per motivi legati alla mia professione di allora. Avvenne durante la fiera Italia 2000 che si svolse a Mosca nel 1988. Visitò lo stand Fininvest di cui ero responsabile e si soffermò a chiacchierare con me tramite l’aiuto di un interprete. La seconda volta fu durante il mio mandato parlamentare. Partecipavo in quella circostanza a una delegazione della nostra Commissione esteri, il cui presidente era Achille Occhetto, suo grande ammiratore. In questa seconda occasione la conversazione, a più voci, toccò temi squisitamente politici riguardanti l’Unione Sovietica, la Russia, l’Italia e l’Europa in genere.
A differenza di Occhetto, non fui mai tra i suoi fan, e al contrario ho parteggiato sempre per il suo antagonista Boris Nikolaevic Eltsin, che avevo avuto occasione di incontrare e conoscere in molte più occasioni.
A oggi il giudizio che posso esprimere su Gorbaciov è certamente ambivalente. Nessuno può negare che si sia trattato di un uomo di buona intelligenza e cultura, che è entrato nella storia per aver contribuito in modo determinante alla scomparsa del moloch sovietico e alla fine della Prima guerra fredda. I motivi per cui non posso annoverarmi fra i suoi ammiratori stanno soprattutto nel fatto che, pur artefice di entrambi di quei positivi avvenimenti, lo fu senza tuttavia volerlo ed esserne consapevole fino in fondo. Il giudizio critico, anche se per motivi parzialmente diversi, non è solo mio bensì era ed è condiviso dalla maggior parte dei cittadini dell’URSS, e ciò spiega il perché la sua morte in Russia non ha suscitato nessuna particolare commozione.
Per essere obiettivi è bene sottolineare che la fine dell’Unione Sovietica era già cominciata prima che lui salisse al potere. Il suo maestro, Yuri Vladimirovic Andropov, lo aveva capito già all’inizio degli Anni 80 e nella sua breve presidenza aveva cercato di modificare il sistema nel modo più lento e indolore possibile. Il suo mandato tuttavia fu troppo breve per vederne qualche effetto, e dopo di lui il Politburo aveva scelto un ultraconservatore nostalgico dei tempi e dei metodi brezneviani. Fortunatamente costui durò ancora meno del predecessore e si aprirono così le porte per il relativamente giovane (54 anni) Gorbaciov, che cercò di riprendere la strada aperta da Andropov. Era il 1985. Dall’inizio degli Anni 80 il prezzo internazionale del petrolio, principale voce di entrate del bilancio sovietico, si era incamminato verso i minimi storici del periodo e ciò aveva causato enormi difficoltà alla gestione della pur minima parvenza di welfare nel Paese. Le code davanti ai negozi di beni di largo consumo diventavano molto più lunghe di quanto già lo fossero state nel passato.
Ricordo una barzelletta che girava tra i cittadini moscoviti all’epoca: a un capofamiglia che voleva mettersi in lista per acquistare un frigorifero fu detto che sarebbe dovuto andare a ritirare l’elettrodomestico il 18 di aprile del quarto anno successivo alla sua domanda. Fu costretto a rifiutare poiché esattamente nella stessa data era già previsto in casa sua l’intervento dell’idraulico che avrebbe dovuto sistemare una grossa perdita nel rubinetto della cucina. Evidentemente le due cose non potevano avvenire in contemporanea. Questi erano i sentimenti diffusi nell’URSS mentre le televisioni cominciavano a trasmettere i grandi sceneggiati americani quali Dallas e mostrare un’opulenza che in Russia immaginavano fosse disponibile per tutti gli americani.
In aggiunta ai problemi della vita di tutti i giorni, nelle varie repubbliche stava aumentando una certa corruzione diffusa tra i vertici locali del partito e qualche scandalo di appropriazioni indebite venne a galla contribuendo ad alimentare la sfiducia verso gli organi del PCUS.
Mentre si aggravavano i problemi del cittadino qualunque, il governo si trovò a dover fronteggiare gli enormi investimenti finanziari e tecnologici messi in atto in quegli anni dall’amministrazione Reagan negli Stati Uniti. Gorbaciov capì che non avrebbe più potuto reggere il confronto e da lì, e solo per quel motivo e non per uno slancio pacifista, decise le sue aperture verso l’occidente. Nacquero in quelle circostanze i colloqui che portarono nel ’91 al primo trattato Start sulla limitazione delle armi strategiche. E la popolarità di Gorbaciov in occidente s’impennò in modo inversamente proporzionale al consenso di cui godeva sempre meno in patria.
Nella politica interna aveva già cercato di intervenire sullo sclerotico sistema comunista in cui lo Stato, basato su di un’economia pianificata fino al piccolo dettaglio, prevedeva che a Mosca si decidessero tutti gli aspetti della produzione di qualunque prodotto, la quantità, il tipo e il prezzo per il consumatore. Ogni industria manifatturiera non teneva un bilancio delle entrate e delle uscite poiché quanto doveva comprare per la produzione e a che prezzo era deciso dal centro moscovita e sempre da lì si fissava il prezzo dei manufatti che sarebbero arrivati sul mercato. La nuova formula, la Perestroika, prevedeva invece che, pur rimanendo facoltà dei centri decisionali moscoviti fissare i prezzi al consumo, ogni azienda diventava libera di scegliere i propri fornitori e di negoziare i prezzi d’acquisto dei materiali necessari. Tuttavia era troppo poco e ancora troppo rigido restava il sistema perché potesse funzionare. La proprietà privata continuò a restare proibita per le imprese, ma furono autorizzate, a titolo di esperimento, alcune cooperative. Soprattutto per lanciare un segnale di modernità verso l’occidente e dare l’impressione alle opinioni pubbliche mondiali di un radicale rinnovamento; in parallelo alla Perestroika fu lanciata una seconda parola d’ordine: Glasnost, tradotto in Italia come “trasparenza”. In tutto questo Gorbaciov non aveva alcuna intenzione di abbandonare il sistema comunista o la realtà del Partito Unico, ma solo di renderlo un po’ più efficiente e, attraverso la glasnost, di recuperare quel consenso popolare che si era reso conto stesse scemando velocemente ogni giorno di più.
In un certo senso mal gliene incorse, poiché in molti equivocarono e credettero di essere di fronte davvero alla fine di un sistema totalitario e repressivo. Le voci critiche cominciarono ad apparire sempre più numerose e nelle repubbliche baltiche qualcuno sperò che i cambiamenti in atto fossero solo l’inizio di una trasformazione più profonda. La loro domanda d’indipendenza cominciò a essere pronunciata a voce alta. A Vilnius e altrove ci furono grandi manifestazioni popolari e la risposta gorbacioviana fu quella tipica dei regimi comunisti che lo avevano preceduto: intervento dell’esercito contro la popolazione e decine di morti. Le domande d’indipendenza tuttavia si fecero più pressanti e Gorbaciov credette di rispondervi lanciando, il 17 marzo 1991, un referendum per chiedere a tutti i concittadini se considerassero “necessario mantenere l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”. Come sempre accade nei sistemi totalitari la risposta elettorale, per quanto probabilmente ben diversa tra la Russia e le altre Repubbliche, fu affermativa per il 77.85% dei voti. Anche a Mosca comunque si capì che quella risposta non risolveva i problemi, e nell’agosto dello stesso anno Gorbaciov andò in vacanza in Crimea mentre un ampio gruppo di suoi stretti collaboratori organizzò quello che la storia ha definito come un golpe fallito. Gli artefici di quel colpo di stato furono, guarda caso, proprio i ministri e gli alti vertici delle forze armate che lo stesso Gorbaciov aveva nominato poco prima in quelle posizioni sostituendo personaggi più moderati. Sono molti in Russia e altrove (compreso il sottoscritto), che hanno motivo di pensare che quel golpe in realtà fosse stato organizzato con la connivenza dello stesso Gorbaciov. Lui, visto l’apprezzamento che si era costruito all’estero, aveva tutto l’interesse a mantenersi “puro” agli occhi di tutti i suoi interlocutori occidentali. Nessuno si sarebbe stupito se, dopo qualche importante “pulizia” tra i contestatori più accesi, dopo aver ridimensionato la Glasnost e i vari capoccia “indisciplinati” delle repubbliche, gli artefici del colpo di stato si fossero ritirati lasciando ancora il posto allo stesso Gorbaciov. Forse perché la pensava così anche il nostro Giulio Andreotti, lui, allora ministro degli Esteri, si precipitò a riconoscere quel nuovo governo promettendo collaborazione.
Alla fine probabilmente Gorbaciov non era l’uomo giusto per procedere alla riforma (per quanto solo un tentativo di “ammodernamento”) del sistema sovietico. Il suo modo di parlar la lingua russa, per quanto strutturalmente corretto, era viziato da un accento che suonava fortemente antipatico alla maggior parte dei russi, un po’, se non peggio, come il bizzarro accento di De Mita nel parlare l’italiano. Inoltre tra le scelte che lo resero impopolare agli occhi dei più ci fu la scellerata decisione di abolire la vendita di vodka in tutta l’Unione Sovietica e di ordinare l’espianto (solo raramente assecondato nei fatti) degli alberi di vite. Quest’idea non era sua ma di un falco del Politburo di nome Ligaciov, ma Gorbaciov, notoriamente astemio, la assecondò.
Ho avuto la fortuna, nei primi anni ’90 di parlare a lungo e a tu per tu con Alexander Nikolaievic Yakovlev, quello che fu definito “l’architetto della perestroika”, già ambasciatore in Canada. Pur dopo averlo ispirato e fiancheggiato per tutti i primi anni della presidenza, il suo giudizio su Gorbaciov era tranchant: un incapace che non ebbe il coraggio e la capacità di andare fino in fondo con le dovute riforme. In altre parole, un uomo che non fu all’altezza del compito che la storia gli aveva assegnato.
Con tutta la pietà umana che può ispirare un uomo potente caduto poi in disgrazia e morto a 91 anni, probabilmente il giudizio di Yakovlev è quello che meglio si addice oggi a Michail Sergeevic Gorbaciov.

Dario Rivolta.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.