Hong Kong oggi

di Dario Rivolta *

Seguendo le notizie su quanto avviene nel mondo da qualche mese a questa parte non si può non rimanere colpiti dal fatto che ribellioni, disordini di piazza, colpi di Stato (realizzati o solo tentati) sono presenti quasi ovunque. Hong Kong, Iran, Iraq, Kuwait city, Libano, Egitto, Algeria, Francia, Spagna, Venezuela, Bolivia sono quelli che vengono per primi alla mente, ma è certamente una enumerazione per difetto. Anche dove il malcontento popolare non assume aspetti violenti, si avverte la presenza di un disagio diffuso che porta i cittadini a dare maggior forza a partiti o movimenti che criticano ferocemente l’ordine costituito e mettono a rischio la capacità della stessa forma democratica di assorbire le contestazioni incanalandole nelle Istituzioni. In ogni Paese, le motivazioni che emergono in superficie sono diverse e restano apparentemente legate a fattori locali contingenti. È indubbio che il contesto economico e geopolitico di Hong Kong, ad esempio, sia diverso da quello del Libano. Tuttavia non va sottovalutato che in entrambi i casi le motivazioni dichiarate che diedero inizio alle proteste riguardavano piccole cose. Nel primo caso si trattava di estendere a Taiwan e alla Cina un accordo di estradizione già in corso con la maggior parte degli altri Paesi del mondo. Nel secondo le proteste eruppero quando il governo decise di tassare di pochi centesimi l’uso di WhatsApp. Le interpretazioni solitamente date dai vari organi quotidiani della stampa sono sembrate andare più a fondo, identificando nella voglia di democrazia le proteste cinesi e in una crisi economica nazionale quella del Paese. Nessuno può affermare che tali ragioni fossero inesistenti perché, indubbiamente, quei motivi c’erano ma, come sempre quando esplode una protesta popolare che dura nel tempo, anche ce n’erano anche altri e di gran lunga più profondi.
Purtroppo e frequentemente gli “inviati” delle varie testate si recano nei Paesi oggetto dei loro articoli per la prima volta e raramente ne parlano la lingua. Durante i pochi giorni della loro permanenza sono costretti a limitarsi ad incontrare coloro che parlano qualcuna delle lingue conosciute dal giornalista e, di solito, si tratta di esponenti di classi privilegiate, o almeno più acculturate. C’è perfino chi, già prima di partire, sa già l’impostazione che darà all’articolo da scrivere e lo farà per conformismo o per pigrizia. Nel peggiore dei casi scriveranno quello che qualcuno ha “suggerito” in precedenza oppure ciò che è “politicamente corretto” (o politicamente conveniente) dire. Ricordo, a tal proposito, ciò che mi disse un molto conosciuto corrispondente della RAI da Mosca. Incontrandolo in aeroporto lo criticai per la sua scarsa obiettività nel riferire la realtà degli ultimi anni della gestione Gorbaciov in Unione Sovietica. Gli rimproverai di non parlare mai della popolarità in caduta libera del segretario del PCUS e del visibile fallimento della “perestroika”. La risposta: “Io devo dire ciò che la mia dirigenza mi chiede e che i telespettatori si aspettano”.
Qualcosa di simile (anche se i motivi sono forse diversi) sta accadendo oggi e lo si nota leggendo i quotidiani che riferiscono delle recenti proteste nei vari Paesi. Innanzitutto occorre non dimenticare che, quando la gente scende in piazza, ognuno ha dentro di sé le proprie motivazioni che, spesso inconsciamente, razionalizza solo a posteriori. Inoltre, chi si sia mai trovato in mezzo ad una folla urlante sa che, in quei casi, l’individualità viene meno e nasce al suo posto uno spirito collettivo che si adegua con naturalità alle parole d’ordine più scandite. Una massa di gente è sempre un coacervo di mille storie differenti che solo in apparenza (e per il venir meno della razionalità) sembra avere un unico obiettivo. È nella natura della psicologia umana che qualcuno esca dalla massa, sia riconosciuto come un possibile leader e si faccia unico portavoce imputando a tutti le motivazioni di alcuni. Non è affatto automatico che ciò che lui dice corrisponda esattamente alle ragioni che hanno portato lì ogni individuo e hanno ingrossato il numero dei manifestanti.
L’evidenza più eclatante di questi meccanismi è proprio quanto sta accadendo a Hong Kong.
Chi conosce quella realtà sa bene che il motivo che ha raggruppato così tante persone non è politico. È solo una piccola minoranza quella che dichiara di sentire la mancanza di vera democrazia. E, d’altra parte, il regime britannico durato 150 anni dopo la fine della “guerra dell’oppio” era tutt’altro che democratico: il governatore era sempre necessariamente inglese, il suffragio era limitato e metà dei seggi dello pseudo-Parlamento locale era riservato agli uomini d’affari possidenti. Che non sia la “partecipazione” la molla che ha spinto così tante persone di ogni età nelle piazze è confermato dal fatto che, dopo le proteste dello scorso anno, quelle degli “ombrelli”, andarono a votare soltanto il quaranta percento degli aventi diritto.
La vera ragione del forte malcontento della maggioranza della popolazione dell’isola è puramente economica e risiede nell’enorme costo della vita e nella consapevolezza che la ricchezza locale è destinata a svanire gradualmente, parallelamente allo sviluppo di tutte le altre zone franche create da Pechino nell’entroterra. Nel 1993, prima della cessione del territorio alla Cina Popolare, il Prodotto locale lordo di Hong Kong era pari al 27% di quello di tutto il Paese continentale. Oggi ne rappresenta soltanto meno del 3%. Se è vero che in Hong Kong esiste una classe molto ricca che alza sensibilmente la media del PIL locale, è anche risaputo che il 20 percento della popolazione locale vive al di sotto del livello di povertà assoluta e un altro 30 percento circa al di sotto di quella relativa. Per dare un’idea della situazione basta ricordare che negli ultimi dieci anni i salari sono aumentati mediamente del sei percento, mentre il costo delle case e dei servizi in genere hanno visto un incremento del 300 percento.
Tutto è dovuto al fatto che l’isola è diventata la porta di ingresso più agevole per il mercato interno cinese poiché gode di agevolazioni bancarie, fiscali, ordinative e di visti per gli stranieri. La conseguenza di questo grande afflusso ha significato un incremento enorme della domanda dei benestanti con ovvio aumento dei prezzi. Perfino società cinesi della Repubblica Popolare hanno stabilito lì i loro quartier generali o loro sedi operative. Bisogna anche aggiungere che molta mano d’opera è arrivata sul posto dall’entroterra, occupando posti di lavoro a condizioni ridotte rispetto agli autoctoni. I giovani locali hanno perso la certezza di trovare adeguati posti di lavoro dopo la fine degli studi e quasi nessuno di loro può più permettersi nemmeno una casa in affitto che non sia uno scantinato di piccole dimensioni. Alcune statistiche attribuiscono a Hong Kong il record mondiale dei costi più alti degli affitti per abitazioni e uffici. Il malessere non è cosa recente ma è andato peggiorando negli ultimi anni, fino a che una qualunque scintilla non l’ha fatto esplodere.
Se si interrogano molti dei manifestanti, è facile rispondano che il loro obiettivo è la democrazia o perfino la secessione, ma è ovvio che questa seconda è impossibile per un mucchio di ragioni e che immaginare la prima come una soluzione ai suddetti problemi è pura illusione. Pechino, che ha le sue responsabilità, sa bene quale sia la vera situazione ma teme anche che, come sta succedendo, gli eventi abbiano oramai assunto una dimensione internazionale da cui gli è difficile sottrarsi. È per questo che punta sui tempi lunghi e cerca di lasciare le autorità locali a sbrigarsela da soli. Ciò che vorrebbe evitare è un aumento incontrollato del numero dei morti, cosa che radicalizzerebbe le contestazioni e “rovinerebbe” l’immagine di Hong Kong quale piazza finanziaria internazionale. Il tempo, si pensa nella capitale, stancherà i manifestanti e ridurrà man mano il loro numero consentendo così di riassorbire la protesta. Poi si vedrà
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* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.