di Enrico Oliari e Giuseppe Gagliano –
Le ultime notizie che provengono dalla Siria riguardano l’avanzamento dei “ribelli” e delle forze qaediste loro alleate ad Aleppo, di cui controllerebbero ormai buona parte della città. Chiuso l’aeroporto, mentre i ribelli hanno aperto le carceri e liberato tutti i prigionieri. La pressione degli attaccanti, che ha colto di sospesa l’esercito, continua a crescere, tanto che sui social i civili hanno denunciato la fuga delle forze governative da Az-Zamiya. L’esercito siriano mantiene ancora il controllo della zona di al-Furqan, ma con difficoltà e pesanti combattimenti.
Tra la costellazione di sigle che compongono l’Esercito siriano libero vi è il gruppo islamista sunnita combattente Jaish al-Izza, il cui leader Mustafa Abdul Jaber ha affermato, come riporta Rai.it, che la rapida avanzata è stata possibile dall’assenza del supporto iraniano, che avrebbe subito duri colpi dagli israeliani.
Intanto il presidente siriano Bashar al-Assad è volato a Mosca per fare il punto della situazione con l’alleato russo.
A condurre l’attacco è principalmente il gruppo neo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo sorto nel 2017 dall’unione di Jabhat Fattah al-Sham, questo a sua volta proveniente dal Fronte al-Nusra (al-Qaeda), con altri gruppi jihadisti minori, cioè il Fronte Ansar al-Din, Jaysh al-Sunna, Liwa al-Haqq e il Movimento Nour ad-Din al-Zenky.
La Siria torna quindi al centro di un conflitto che sembra non trovare fine, con le campagne di Idlib e Aleppo trasformate nuovamente in teatri di guerra aperta. A pesare tuttavia non è solo l’intensità degli scontri sul terreno, ma soprattutto il delicato rapporto tra due attori esterni di peso, la Turchia e la Russia. Da anni queste due potenze giocano una partita complessa in Siria, tra interessi divergenti e una collaborazione strategica spesso dettata da necessità tattiche.
Va detto che mentre i turchi hanno come obiettivi primari quelli di tutelare le popolazioni turcomanne e di scongiurare i contatti tra i curdo-turchi e i curdo-siriani, i russi hanno nel paese importanti basi aeree e navali sin dall’epoca sovietica, a Latakia e a Tartus.
Ankara, attraverso l’Esercito Nazionale Siriano (SNA) e i gruppi ribelli sostenuti, sembra determinata a riaffermare la propria influenza nel nord della Siria. L’obiettivo ufficiale dichiarato è il ripristino dei confini della zona di de-escalation concordata nel 2017 e 2019, ormai ridotta dopo le offensive di Mosca e Damasco. Tuttavia, dietro questa narrazione si cela una strategia politica più ampia.
La Turchia punta a usare la crisi militare come leva per forzare il governo siriano a riaprire i canali di dialogo sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali. A questo si aggiunge il piano del presidente Recep Tayyp Erdogan di rimpatriare almeno un milione di rifugiati siriani, un tema centrale per il suo consenso interno.
Ma il sostegno turco ai gruppi ribelli non si limita a una questione interna. Secondo fonti sul campo, combattenti stranieri sono entrati in Siria attraverso il confine turco esattamente com’era stato con l’Isis, dimostrando come Ankara stia usando i propri alleati sul terreno per mantenere alta la pressione su Damasco e indirettamente su Mosca.
Dall’altra parte la Russia non può permettersi di perdere terreno in Siria. L’intervento militare di Mosca nel 2015 ha garantito la sopravvivenza del regime di Bashar al-Assad, ma ha anche trasformato la Siria in una base strategica per proiettare la propria influenza nel Mediterraneo orientale.
L’aeronautica congiunta russo-siriana ha intensificato i raid nelle ultime ore, con il Centro per la riconciliazione russo che rivendica l’uccisione di almeno 400 miliziani. Tuttavia la Russia si trova in una posizione scomoda. Da un lato deve sostenere Damasco per consolidare le proprie conquiste territoriali e politiche; dall’altro, non può permettersi di alienarsi completamente Ankara, con cui ha intrecciato rapporti strategici nell’ultimo decennio.
La vendita dei sistemi di difesa S-400 alla Turchia, la collaborazione nel progetto del gasdotto TurkStream, la costruzione di una centrale nucleare assegnata alla Rosatom e la mediazione nei conflitti regionali sono esempi di un rapporto che, pur essendo fragile, resta vitale per entrambe le parti.
La crisi siriana mette in luce l’ambiguità di questo rapporto. La Turchia e la Russia, pur essendo su fronti opposti in Siria, continuano a collaborare su altri tavoli geopolitici. Questo equilibrio però è sempre più precario.
Gli scontri ad Aleppo e Idlib rischiano di esacerbare le tensioni, spingendo Mosca a intensificare il proprio sostegno a Damasco, e Ankara a rafforzare la sua presenza militare attraverso i gruppi ribelli. La questione centrale è capire fino a che punto i due Paesi siano disposti a tollerare le mosse dell’altro prima che la competizione si trasformi in un confronto diretto.
Nel frattempo la popolazione civile continua a pagare il prezzo più alto. Decine di migliaia di famiglie restano sfollate, intrappolate in una guerra che sembra non offrire via di uscita. La “zona di de-escalation” di Idlib, un tempo simbolo di una possibile tregua, si è trasformata nell’ennesima illusione di pace.
In questo contesto la Siria resta una terra contesa, dove ogni attore persegue i propri interessi senza scrupoli. La domanda non è se la Turchia e la Russia continueranno a collaborare, ma quanto a lungo riusciranno a mascherare la loro rivalità dietro la facciata di un fragile compromesso.