Il cambio di passo della politica estera cinese

di Marco Corno

Dodici anni dopo l’inaugurazione del “Pivot to Asia” da parte dell’amministrazione Obama, che ha cambiato strategicamente la politica estera statunitense orientandola principalmente nell’Indo-Pacifico in funzione anti-cinese, la sfida tra Stati Uniti e Cina si è accentuata sempre di più, raggiungendo livelli di tensione mai visti in precedenza. Lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina non ha solamente esacerbato ancora di più le relazioni sino-americane ma ha generato una situazione geopolitica per la quale il livello di competizione tra le due superpotenze è diventato così elevato che oramai qualsiasi tipo di distensione sembrerebbe essere utopia.
Dopo i primi mesi di guerra dell’anno scorso, quando Pechino decise di mantenere una posizione equidistante dal conflitto anche a causa dei problemi interni socio-economici legati alla gestione del Covid-19, la politica estera cinese è progressivamente cambiata, diventando più attiva a seguito della visita della speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan lo scorso agosto a cui sono seguite altre visite di esponenti del Congresso americano, considerate da Pechino delle provocazioni e una violazione della sovranità cinese sull’isola di Formosa. La posizione americana e la reazione cinese con massicce esercitazioni militari sia nello Stretto di Taiwan sia intorno all’intero arcipelago di Formosa hanno generato una nuova crisi dello Stretto, molto più pericolosa delle precedenti non solo per la vastità e la profondità di tali esercitazioni ma anche per la grande instabilità che affligge attualmente l’ordine internazionale. Proprio questi eventi potrebbero aver ridotto drasticamente i margini di negoziato diplomatico tra Washington e Pechino per la risoluzione pacifica del dossier taiwanese. Infatti, da allora la competizione sino-americana si sta trasformando progressivamente in una guerra ibrida non più limitata solamente ai dazi e alle sanzioni: la violazione da parte di un pallone aerostatico cinese dello spazio aereo americano a gennaio e il suo successivo abbattimento da parte della difesa statunitense hanno dato inizio ad “una guerra dei cieli” tra la Cina e gli Stati Uniti per il controllo dei propri e la violazione di quelli altrui tramite lo spionaggio aereo-spaziale. L’utilizzo cinese del pallone aerostatico potrebbe essere stata anche una risposta politica a quelle che Pechino considera una ingiustificata ingerenza americana nei suoi affari interni nel Mar Cinese Meridionale, cercando di mettere in risalto le vulnerabilità e le fragilità della potenza egemone nel garantire l’inviolabilità e l’integrità della propria sovranità.
Il “salto di qualità” definitivo però della competizione sino-americana è avvenuto a febbraio in occasione dell’anniversario del primo anno di guerra tra Russia e Ucraina. La visita del direttore della Commissione per gli Affari esteri del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese Wang Yi a Mosca il 22 febbraio e la pubblicazione il 24 febbraio 2023 dei 12 punti per la pace in Ucraina da parte del governo cinese rappresentano ufficialmente l’inizio dell’allargamento della sfida sino-americana al continente europeo. La Cina, con queste mosse, ha posto definitivamente fine alla propria politica estera del basso profilo, punta di diamante della presidenza di Jiang Zemin (1993-2003) e Hu Jintao (2003-2013), scegliendo al contrario di assumere una politica più chiara e schietta sulle principali querelle internazionali in funzione anti-americana con anche il fine di reagire all’offensiva politica di Washington nei loro confronti sulle questioni geopolitiche più sensibili dalla cyberwar ai diritti umani. Il regime cinese forse teme che una posizione fin troppo difensiva della Cina nello scacchiere internazionale possa essere vista dagli altri stati come un fattore di debolezza e tradursi in una perdita di credibilità, acuendo il contenimento statunitense anticinese nell’Indo-Pacifico.
Il cambio di passo della diplomazia cinese ha portato alla firma il 10 marzo di uno storico accordo di riappacificazione tra Iran e Arabia Saudita, potenze avversarie, che potrebbe cambiare in modo rilevante gli equilibri geopolitici del Medio Oriente nei prossimi anni. Un risultato molto importante per la Cina, civiltà storicamente chiusa al mondo e quindi non particolarmente avvezza alla mediazione di “stampo occidentale”, che forse sta imparando a considerare la diplomazia un utile strumento di soft power per presentarsi alla società internazionale come potenza armonica a cui interessa la stabilità e la diffusione del benessere ma soprattutto come atout per accrescere la propria credibilità e prestigio: il regime cinese potrebbe aver compreso che una superpotenza, se ambisce ad essere tale, deve saper anche fare mediazione e diventare un punto di riferimento nella comunità internazionale. Inoltre, la nuova postura politico-diplomatica della Cina potrebbe servire anche a conseguire un importante obiettivo tattico: scaricare le tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti lontano dai propri confini nazionali, cercando di distrarli dal Sud-Est asiatico.
La sfida tra Washington e Pechino assume sempre di più le sembianze di un nuovo “Great Game” del XXI secolo combattuto da Stati Uniti e Cina nel quale le due superpotenze competono per l’influenza delle aree geopolitiche più importanti del continente eurasiatico dall’Asia all’Europa passando per il Medio Oriente. Dentro questa nuova partita l’asse russo-cinese sembrerebbe consolidarsi sempre di più, riformando sotto forma di alleanza l’impero mongolo. Un gigante tellurico ancora in fieri ma che probabilmente rappresenterà la sfida più ardua per l’intero Occidente almeno per questo decennio.
L’incontro tra Xi Jinping e Vladimir Putin del mese scorso è un messaggio geopolitico importante: Beijing vorrebbe evitare che la guerra in Ucraina indebolisca a tal punto lo stato confinante russo da destabilizzarlo se non addirittura causarne il collasso. Se ciò dovesse accadere, il caos potrebbe violare i confini cinesi e attecchire nelle regioni cinesi più sensibili alla ribellione come lo Xinjiang e il Tibet. Uno scenario che culturalmente e storicamente la Cina non potrebbe accettare.