Ucraina. Il confronto diretto tra Zelensky e Putin: svolta diplomatica o manovra strategica?

di Riccardo Renzi

A oltre tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’annuncio di un possibile incontro diretto tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, previsto per giovedì a Istanbul, segna un punto di discontinuità nella narrazione della guerra e nei percorsi diplomatici finora seguiti. Non si tratta solo di un cambio di tono: è la prima volta che il presidente ucraino si dice disponibile a confrontarsi di persona con il leader del Cremlino, rompendo un tabù costituzionale e politico che ha a lungo vincolato le scelte di Kiev.
Il contesto che precede questo incontro è frenetico, carico di tensioni, ma anche di aperture. Il tentativo di mediazione da parte della Turchia, il coinvolgimento attivo di Donald Trump e l’iniziativa europea dei “Volenterosi” (Francia, Germania, Regno Unito e Polonia) per un cessate il fuoco di 30 giorni, compongono un mosaico diplomatico inedito, in cui convergono — e talvolta si scontrano — le agende strategiche dei principali attori internazionali.
La proposta di trattative dirette, avanzata da Vladimir Putin nel cuore della notte a Mosca dopo la parata del 9 maggio, è arrivata in modo tanto inatteso quanto ambiguo. Il leader russo ha evocato Istanbul come sede dei colloqui, rievocando i tentativi di negoziato del 2022, naufragati tra accuse reciproche e divergenze insanabili. Ma questa volta, a differenza di allora, ha lasciato intendere una disponibilità a trattare “senza condizioni”, ovvero senza la necessaria sospensione dei combattimenti.
La risposta di Zelensky è stata sorprendente: “Aspetterò Putin in Turchia, giovedì. Di persona.” Una frase che suona come una sfida, ma che in realtà cela un mutamento profondo di linea. Non è solo l’eco dell’invito di Trump a “vedere le carte” di Mosca; è un atto simbolico che rompe con l’impostazione ucraina degli ultimi anni: quella dell’intransigenza totale verso un leader considerato “terrorista” e “criminale di guerra”, e con cui era vietato per legge ogni confronto diretto.
Tuttavia il rilancio di Zelensky non è privo di condizioni: l’Ucraina, insieme ai leader europei, chiede un cessate-il-fuoco immediato e senza condizioni per 30 giorni, come base per ogni successivo negoziato. È questo il punto di frizione con Mosca, che chiede invece la contemporanea sospensione delle forniture militari occidentali, paventando che Kiev possa approfittare della pausa per riarmarsi.
Se l’annuncio di Zelensky rappresenta un terremoto nella postura diplomatica ucraina, lo stesso si può dire per il ruolo di Donald Trump. Il presidente statunitense, da sempre scettico sull’efficacia delle sanzioni e critico del sostegno “illimitato” all’Ucraina, ha scelto di tornare protagonista in un momento delicatissimo. Prima ha incoraggiato Kiev a sedersi al tavolo, poi ha messo in discussione la volontà stessa di Putin di giungere a un accordo, accusandolo indirettamente di cinismo celebrativo: “è troppo impegnato con la parata della vittoria per trattare seriamente”.
Trump ha però raggiunto ciò che sembrava irraggiungibile: ha rotto il tabù dei contatti diretti con Mosca e ha ottenuto l’avvio di un processo diplomatico che gli consente di presentarsi, in patria e all’estero, come l’artefice di un potenziale percorso di pace. Se dovesse arrivare un accordo, per quanto fragile, la sua posizione internazionale ne uscirebbe enormemente rafforzata, forse al punto da legittimare la candidatura al Nobel per la Pace che alcuni suoi sostenitori già invocano.
In questo quadro Recep Tayyip Erdogan emerge come il terzo protagonista di questa triangolazione diplomatica. La sua Turchia, membro della NATO ma legata a Mosca da intensi rapporti economici ed energetici, ha giocato fin dall’inizio una partita ambivalente. Oggi si propone come piattaforma neutrale per il dialogo, rievocando i colloqui del 2022. Erdogan ha parlato direttamente con Putin e ha garantito che “siamo a un punto di svolta”. Una frase che, se da un lato cerca di catalizzare l’attenzione, dall’altro rivela la consapevolezza che la finestra per la diplomazia potrebbe richiudersi in qualunque momento.
In forte difficoltà appaiono i Paesi europei che più di altri hanno incarnato il fronte intransigente. Francia, Germania, Regno Unito e Polonia, i cosiddetti “Volenterosi”, avevano promesso sostegno incondizionato a Kiev e chiesto il ritiro totale delle truppe russe come prerequisito per ogni negoziato. Eppure, a meno di 48 ore da quell’impegno, si sono trovati a commentare, o meglio a rincorrere, l’apertura di Zelensky al dialogo diretto con il “nemico”.
La coerenza di questo fronte appare oggi indebolita. Il cancelliere tedesco Merz e il presidente francese Macron, pur definendo “insufficiente” l’apertura russa, hanno ammesso che si tratta di un primo passo. L’impressione è che l’Europa sia spiazzata: troppo coinvolta per tirarsi indietro, troppo dipendente dal supporto americano per agire in autonomia.
Per Vladimir Putin, l’apertura ai negoziati rappresenta una mossa abile ma ambivalente. Da un lato, si mostra disponibile al dialogo, nella speranza di neutralizzare le pressioni occidentali e allentare l’isolamento economico e politico. Dall’altro, impone condizioni indirette (la fine degli aiuti militari a Kiev) che rischiano di minare la fiducia nel negoziato prima ancora che inizi.
Sul piano interno, Putin gioca una partita simbolica: trattare da posizione di forza, nel cuore del mese delle celebrazioni patriottiche, mentre le truppe russe avanzano lentamente nel Donbass. Il rischio è quello di una tregua tattica, funzionale a consolidare le posizioni occupate, più che a preparare una vera pace.
Il vertice di Istanbul si configura come un momento cruciale, ma fragile. Ogni ora che passa prima dell’incontro è una finestra di vulnerabilità: nuove offensive, provocazioni, o anche semplici incidenti di frontiera potrebbero far saltare il banco. E se il faccia a faccia dovesse davvero avvenire, sarebbe comunque un azzardo per entrambi i leader.
Zelensky rischia di alienarsi una parte del fronte euro-atlantico, ma guadagna in legittimità strategica. Putin, costretto a riconoscere la controparte come attore politico legittimo, rompe il dogma che negava a Zelensky ogni interlocuzione. In un certo senso, entrambi perdono qualcosa, e forse è proprio questo il presupposto necessario per trattare.
Che cosa ci dice tutto questo sull’equilibrio geopolitico attuale? Anzitutto che le linee rosse sono meno solide di quanto apparissero. I governi europei, gli Stati Uniti, la Russia e l’Ucraina stanno ridefinendo, ciascuno a modo proprio, le proprie priorità. Il realismo, sotto la pressione del logoramento militare ed economico, inizia a erodere l’ideologia.
In secondo luogo, il protagonismo di attori esterni al perimetro ONU, come la Turchia e gli Stati Uniti in versione “trumpiana”, dimostra la crisi delle architetture multilaterali e la centralità della diplomazia bilaterale.