
di Daniela Binello –
Oro a 4mila dollari l’oncia entro la metà del 2026? Traguardo possibile, per Goldman Sachs, se il dollaro non è più rifugio. Attualmente il lingotto macina record sopra quota 3.200 dollari l’oncia, apprezzandosi anche mentre il rendimento dei Treasuries (titoli americani del Tesoro) vola.
Stimato da sempre come un bene rifugio inattaccabile, in tempi d’inflazione l’oro da investimento rappresenta il modo più rassicurante per proteggere il patrimonio.
La sfiducia nel dollaro, come moneta principe della riserva mondiale, è decisamente in aumento da tre mesi e mezzo a questa parte, ovvero da quando si è insediato Donald Trump per il suo secondo mandato presidenziale (non consecutivo) alla Casa Bianca. Dallo scorso gennaio 2025, infatti, il dollaro ha perso mediamente l’8 per cento rispetto a un paniere di valute mondiali.
E’ una constatazione di fatto, bisogna però fare un passo indietro: negli ultimi anni le banche centrali hanno spinto gli acquisti di oro mosse dalla volontà di ridurre la dipendenza dal dollaro, nell’ambito di un processo di dedollarizzazione dei propri asset finanziari. Ed è ancora più evidente oggi, dal momento che le tensioni geopolitiche stanno mettendo a rischio gli investimenti, mentre il prezzo dell’oro aumenta anche in tempo di crisi e, a lungo termine, mantiene il suo potere d’acquisto.
Diversi i fattori che hanno contribuito a indebolire l’immagine del dollaro: la ritirata degli Stati Uniti dal commercio globale, le politiche ultraprotezionistiche e le rumorose ripicche inferte da Trump all’ordine internazionale brandendo lo strumento dei dazi al rialzo, incurante (almeno in apparenza) dell’aumento del debito federale americano. Oggi il debito pubblico americano supera i 36mila miliardi di dollari, più del 120 per cento del Pil, e l’ammontare del debito, che è detenuto da creditori esteri, è di oltre 26mila miliardi di dollari.
I dazi per duellare contro la Cina, poi, hanno lentamente offuscato la percezione del dollaro come pilastro della stabilità finanziaria globale. Tutto ciò non piace agli investitori, spingendoli a correre ai ripari.
In passato, tuttavia, il fenomeno era affrontato diversamente: il rischio d’instabilità dei dazi americani spingeva gli investitori a rifugiarsi nel dollaro, con l’effetto di rafforzarlo. Oggi, invece, la domanda di oro come bene rifugio viene vissuta come antidoto contro l’inflazione, perché la tenuta del dollaro non convince più.
C’è un particolare non trascurabile, però: di oro da comprare non ce n’è abbastanza. L’oro è un minerale che deve essere generalmente estratto dalla roccia, dopo di che deve essere separato da altri metalli e minerali e deve subire dei processi di amalgamazione, levigazione e cianurazione in raffinerie specializzate. Quelle principali, considerate fra le più affidabili, si trovano in Svizzera.
Il ruolo della Svizzera come leader mondiale nella lavorazione dell’oro è dato dal fatto di essere l’unico paese ad avere introdotto una legislazione specifica per il controllo dei metalli preziosi, istituendo un Ufficio federale preposto alla supervisione e all’autenticità dei prodotti. In caso di errore nella certificazione dei metalli preziosi, la responsabilità non ricade sulla singola raffineria, ma direttamente sulla Svizzera. Questa regolamentazione rappresenta una garanzia ulteriore per i clienti.
Non a caso, quindi, una delle raffinerie più importanti del mondo si trova a Mendrisio, capoluogo del Canton Ticino. Si chiama Argor-Heraeus Pellegrinelli. Il suo condirettore generale, Robin Kolvenbach, ha spiegato che la raffineria è un sistema ermetico, tutto ciò che entra viene controllato minuziosamente, analogamente a tutto ciò che esce. In un servizio di approfondimento, il Financial Times ha parlato della straordinaria ondata di ordini ricevuti dalla raffineria ticinese mentre il prezzo dell’oro continuava a crescere, al contrario delle Borse che in alcuni giorni neri, degli ultimi cento del 2025, hanno subito crolli molto importanti, incenerendo miliardi di dollari. La minaccia dei dazi agisce da leva sul mercato dell’oro, tira le somme Kolvenbach.
L’elezione di Trump ha generato timori tra gli investitori, in particolare sulla possibilità che il presidente imponesse dazi anche sull’importazione di oro negli Stati Uniti. Per questo motivo ora assistiamo al movimento inverso: una parte dell’oro trasferito a New York da Londra – mercato principale dove vengono scambiate 500 tonnellate di oro al giorno, pari a circa un quinto della produzione annua globale – adesso ritorna nel vecchio continente.
Il movimento è legato al funzionamento della Borsa Comex di New York (divisione del Nymex dedicata alla negoziazione di contratti su oro, argento, rame e alluminio), dove i contratti futures sull’oro richiedono, alla scadenza, la consegna fisica del metallo (in barre e lingotti).
Le barre d’oro da 400 once (12,4 chilogrammi) sono generalmente conservate in gran parte a Londra, in uno dei caveau della Banca d’Inghilterra. Vengono rifuse in barre da un chilo (il formato richiesto a New York) e si spediscono. Tuttavia, il timore che Trump imponesse dazi sulle importazioni d’oro ha spinto molti operatori a muoversi rapidamente, accelerando le esportazioni verso gli Stati Uniti. L’oro fuso per il momento è tuttavia escluso dai dazi. A questa motivazione si è aggiunta la spinta speculativa, in quanto il prezzo tra l’oro quotato a Londra e quello quotato a New York presenta delle variazioni.
Alla raffineria Argor-Heraeus di Mendrisio, che ha un giro d’affari di 26,5 miliardi di euro, adesso i volumi si sono quadruplicati, con richieste crescenti da Londra. Per soddisfare la domanda perciò l’azienda ha aumentato i turni, estendendo i cicli produttivi sulle 24 ore. Qualcosa di simile era già accaduto, ad esempio nel 2020, durante i primi mesi della pandemia, quando gli investitori acquistavano oro in grandi quantità. Lo stesso accadde durante la crisi di Lehman Brothers nel 2008.