di Ciro Maddaloni * –
Tutti parlano sui giornali del problema dell’immigrazione clandestina che affligge i Paesi del sud dell’Europa ed in particolare il nostro. Masse di persone in cerca di una vita migliore che si spostano dall’Africa, dal Bangladesh, dal Pakistan per cercare fortuna nell’eldorado europeo. Si parla tanto del problema immigrazione ma si parla molto poco, o per niente, del problema tutto italiano dell’emigrazione: la fuga dei giovani italiani verso l’estero.
Come possiamo leggere nei rapporti annuali pubblicati dall’ISTAT (2021), nel 2019 si sono registrati circa 122 mila trasferimenti di residenza da parte di cittadini italiani che si sono trapiantati all’estero, molti di questi con biglietto di sola andata.
Questo fenomeno dell’emigrazione di italiani all’estero non è più un fenomeno del passato, come possiamo leggere nei libri di storia che documentano l’emigrazione italiana negli anni successivi sia alla prima, sia alla seconda Guerra mondiale. È un fenomeno attuale, in piena ripresa e in costante aumento dal 2008 in poi. La crisi economica del 2008 ha avviato nuovamente un processo di emigrazione da parte di cittadini italiani in cerca di condizioni di vita e di lavoro più soddisfacenti rispetto a quelli che possono trovare nel loro Paese.
Nel 2010 si sono registrati circa 40mila trasferimenti. Nell’ultimo decennio si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni anagrafiche di cittadini italiani per l’estero (emigrazioni) e un volume di rientri che non bilancia le uscite (complessivamente 899 mila espatri e 372 mila rimpatri). Di conseguenza i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 69 mila unità l’anno.
Come ricordano i Rapporti ISTAT, quasi tre cittadini italiani su quattro che si sono trasferiti all’estero nel 2019 hanno 25 anni o più (circa 87 mila): uno su tre (28 mila) è in possesso di almeno la laurea. Infatti, al di là degli aspetti quantitativi relativi agli italiani che hanno deciso di emigrare, si devono considerare anche le caratteristiche dei nuovi emigranti: due su tre hanno un’età compresa tra i 20 e i 49 anni e circa un terzo del totale con almeno 25 anni è in possesso della laurea, quota in costante crescita soprattutto tra le donne.
Forse sarebbe opportuno che qualcuno dei nostri leader politici cominciasse a porsi qualche domanda, come ad esempio: perché questi giovani emigrano all’estero? Potrebbero commissionare un’indagine conoscitiva sulle motivazioni che portano un giovane italiano alla decisione drastica di lasciare il proprio Paese per andare a cercare fortuna all’estero.
Certamente si possono avanzare alcune valutazioni, come ad esempio la gavetta infinita a cui sono costretti i dottorandi ed i ricercatori in genere. Gavetta infinita remunerata spesso con “borse di studio” che sono un affronto a quello che ancora qualcuno superficialmente chiama salario.
Oppure, basterebbe chiedere ai giovani cuochi, pizzaioli, autisti che vanno a lavorare all’estero come motivano la loro scelta perché questi lavori ci sono anche in Italia.
La risposta che riceveranno coloro che porranno la domanda sarà sorprendente solo per quelli che parlano di remunerazione, paga oraria minima e teorie di questo tipo senza avere contezza di ciò di cui parlano.
La realtà del mondo del lavoro in Italia purtroppo è molto più dura e riguarda il rispetto delle regole contrattuali minime, come il pagamento dei contributi sociali, la certezza del diritto di essere pagato puntualmente per chi lavora e la precarietà del lavoro in tutti i settori.
Tutte cose che vengono date per scontate anche nel nostro Paese, ma che se solo si volesse vedere, si scoprirebbe che molta gente che lavora viene pagata meno di quanto dichiarato: persone che lavorano molte più ore di quelle previste dai contratti e che spesso devono avviare azioni legali per essere finalmente pagati.
Per chi non lavora nella pubblica amministrazione oppure in una grande azienda, il nostro Paese è una giungla piena di insidie. La gran parte dei lavoratori nel settore dei servizi, del commercio e in agricoltura non è tutelata. E malgrado questo sia un fenomeno diffuso, la cosa interessa poco o per niente ai nostri politici.
Non serve una nuova legge sul salario minimo: serve che chi lavora sia remunerato come previsto dal contratto che ha firmato quando ha accettato l’incarico, come avviene in Germania, in Francia, in Olanda. Serve che chi lavora, con occupazioni stagionali, sia tutelato nei periodi di inattività, come avviene in tutti i Paesi europei. Non servono nuove regole, serve il rispetto e l’applicazione delle regole esistenti come dovrebbe avvenire automaticamente. Ma cosi non è.
Il nostro Paese è di fatto un’anarchia consolidata, sia nel mondo del lavoro, come in tantissimi altri ambiti sociali.
Infine, una domanda ai nostri politici: vi siete mai chiesti se la bassa natalità che si registra in Italia sia anche correlata alla fuga dei giovani dal nostro Paese?
* Esperto di eGovernment internazionale.
Articolo in mediapartnership con il Giornale Diplomatico.