Il Trattato del Quirinale e gli sviluppi nelle relazioni bilaterali italo-francesi

di Francesco Piacitelli

A distanza di qualche settimana, abbiamo ancora impresse nella mente le immagini delle nostre Frecce Tricolore e delle omologhe transalpine della Patrouille de France, che sincrone colorano il cielo della capitale. Una vicinanza in aria e politica, quella tra Italia e Francia, che anche solo due anni fa sarebbe stata inimmaginabile (ricordiamo la visita del vice premier Di Maio ai Gillet Gialli o la crisi dei migranti cavalcata dall’altro vice premier Matteo Salvini, che portò al richiamo, da parte dell’Eliseo, dell’ambasciatore francese in Italia).
Un percorso di rafforzamento e convergenza tra Roma e Parigi iniziato già nel 2017 su iniziativa del presidente Emmanuel Macron e portato avanti da Paolo Gentiloni prima e da Mario Draghi poi, che, nonostante alti e bassi (a volte siderali) nei rapporti tra i due Paesi, è germogliato nella firma del Trattato del Quirinale. L’Accordo, dal nome a ragione altisonante, è ora in fase di analisi e ratifica da parte del Parlamento italiano, dopo essere stato siglato in pompa magna lo scorso 26 novembre. Il Trattato si presenta molto breve (sono solo 12 articoli), ma ha un peso specifico importante nel ridefinire i rapporti tra i due Paesi.

Chissà se Macron, come si chiedeva Bernard-Henri Lévy anticipando di qualche settimana la sigla dell’accordo, avesse letto di Kojève. La cifra dell’accordo, secondo Lévy e non a torto, può essere infatti rintracciabile nell’opera dell’enigmatico consigliere della Repubblica francese, che già nel 1945 richiamava la figura di un “Impero latino” e la necessità per la Francia di uno stabile legame con le sorelle “latine”, prima fra tutte l’Italia, in chiave di bilanciamento del peso tedesco in Europa. Parigi, ancorché materialmente di difficile attuazione, ha da sempre forti velleità egemoniche, sospinte da un mai assopito sentimento di “grandeur” giustificato non solo dalla tradizione storica, ma anche dal peso e dalla potenza nazionale (il trend demografico francese, ad esempio, è più che positivo rispetto al resto d’Europa, come confermato da uno studio della Fondazione Robert Schuman). Parigi con la firma del trattato ha quindi due obbiettivi in mente:

– Sfruttare l’asse italo-francese per approfondire le crepe, già aperte dalla pandemia, sul modello economico ordoliberista europeo a guida tedesca, scardinando i vincoli dell’austerità e del patto di stabilità.

– Cooperare con Italia non solo sul piano economico (l’interscambio tra i due paesi è pari a circa 40mld di euro), ma anche e soprattutto sul piano internazionale, prestando particolare attenzione al Nord Africa.
A questo punto però cosa può rappresentare l’accordo bilaterale per il Bel Paese? Prima di tutto un esercizio di cultura dello Stato, perché non è probabilmente possibile sedersi alla pari con Stato come la Francia, sia pure con le fratture e criticità che tutti conosciamo, senza aver definito gli obbiettivi di cui dotarti e da perseguire (motivo per cui adoriamo il “multilateralismo”, nel quale riusciamo egregiamente a mimetizzare la mancanza di obbiettivi nazionali da perseguire). L’operare del trattato quindi è una buona occasione per mettere da parte l’aspetto psicologico di sudditanza (assolutamente infondato) che ci contraddistingue nei rapporti esteri e definire un quadro di obbiettivi minimi da perseguire. Seconda, ma non per importanza, l’occasione di definire una relazione indispensabile con un Paese con cui abbiamo aperti numerosi dossier d’importanza fondamentale, a cominciare da quelli mediterranei e africani, passando poi per quelli sulla Turchia e concludendo su industria (telefonica in questo momento) e tecnologie.

Infine la cooperazione italo-francese è l’occasione per presentarsi uniti al negoziato con la Germania e satelliti sull’interpretazione del Patto di stabilità e del modello economico europeo; Roma e Parigi infatti sono allineate contro le ipotesi di regressione all’austerità che serpeggiano a Berlino e fra i nordici.

Ora spetta al Parlamento italiano ratificare l’accordo, che come ogni trattato internazionale deve passare al vaglio delle camere, ma l’occasione è ghiotta soprattutto per l’Italia, che deve ritrovare maturità internazionale e ridefinire una sua traiettoria da perseguire.