Il virologo Giulio Tarro, ‘Coronavirus? Più letale la SARS’

“In Italia misure non tempestive, si pagano carenze delle politiche sanitarie”.

a cura di Gianluca Vivacqua

2002, SARS: dal pipistrello allo zibetto all’uomo. 2012, MERS: dal pipistrello al cammello all’uomo. 2019, Covid-19: dal pipistrello al serpente all’uomo. L’anello iniziale di tutte le influenze da coronavirus è sempre lui, l’umbratile abitatore alato delle tetre caverne. “Non avean penne, ma di vipistrello era lor modo”, canta Dante a proposito delle ali di Lucifero, capaci col loro battito di “aggelare il Cocito”. Come oggi fa il coronavirus dalle ali di pipistrello con tutte le città italiane. Chissà quante volte, in questi giorni di emergenza sanitaria, nazionale, internazionale, globale, a questi versi danteschi avrà pensato il prof. Giulio Tarro, noto virologo e primario emerito dell’Azienda Ospedaliera “Cotugno” di Napoli.

– Professore, è un caso che quasi tutte le influenze arrivino dall’area cino-coreana?
“Diciamo che conta piuttosto la zoologia correlata a una certa latitudine geografica. I virus influenzali hanno origine o da alcuni animali volatili o da alcuni animali acquatici. In primis i pipistrelli: è stato calcolato che nell’intestino di un pipistrello della Cina meridionale si celino almeno 50 tipi di coronavirus diversi. E, considerando che il pipistrello ha anche una grande importanza alimentare nel Paese, non ci si può certo stupire che il 3% degli agricoltori di tutta la Cina sia positivo ai coronavirus: nella stragrande maggioranza dei casi naturalmente si tratta di forme benigne”.

– Coronavirus e Sars sono due parenti stretti: ma hanno la stessa letalità?
“Sì, fanno parte della stessa famiglia e hanno la stessa derivazione animale. La “prima” Sars però, in rapporto a quello che fu il suo livello di diffusione, probabilmente può considerarsi anche più temibile: durata sei mesi, in Cina colpì 8mila persone e ne uccise 774, giungendo così a un tasso di mortalità totale del 10%. Il Covid-19 invece, pur con un’estensione epidemica maggiore (è stata colpita una popolazione di poco più di 80mila persone), a circa quattro mesi dall’inizio dell’epidemia ancora non supera il 2-3% di mortalità. Le vittime accertate finora infatti sono qualcosa in più di 3mila. In Italia l’indice di mortalità non è da sottovalutare, tuttavia bisogna tener conto che riguarda pur sempre i contagiati ospedalizzati, che sono meno dei contagiati asintomatici o che non hanno bisogno di cure ospedaliere”.

– Quando il coronavirus si è diffuso in occidente dalla Cina è scattata la psicosi: ma era veramente giustificata? Che cosa succederebbe invece se malauguratamente ci trovassimo di fronte a un’epidemia di ebola nei paesi occidentali?
“Diciamo che è un virus che crea qualche grattacapo: richiede una larga e pronta disponibilità di postazioni per la terapia intensiva e in un certo senso inchioda alle loro responsabilità pregresse coloro che hanno gestito la Sanità pubblica nel passato, autorizzando tagli senza criterio. Tuttavia anche i trattamenti d’emergenza riguardano uno spicchio molto ridotto della popolazione, e cioè il 4,7%. Con l’ebola chiaramente non ci sarebbero paragoni. E neppure con un eventuale virus frutto di manipolazioni da laboratorio, come all’inizio si era creduto potesse essere il Covid-19: se veramente si fosse trattato di questo, sarebbe stato mille volte più micidiale e devastante”.

– Cosa pensa dei provvedimenti d’urgenza varati dal governo in Italia per fronteggiare il dilagare del virus?
“Fermo restando che il problema va visto sempre in ottica europea, ritengo che siano misure decise con una tempistica poco felice: varate in ritardo sull’effettiva convenienza ma al momento giusto, se vogliamo dire così, per aumentare stress e panico. Stress e panico di cui qualcuno dovrà pagare il conto. Sarebbe stato opportuno per esempio pensare per tempo a un raddoppio dei reparti di terapia intensiva: lo ha fatto la Francia, che pure ha meno casi da gestire“.

– Che differenza c’è tra Carlo Urbani, il medico che morì di Sars dopo averla studiata, e Li Wenliang, il medico che è morto di coronavirus dopo aver lanciato l’allarme sulla sua diffusione?
“A mio parere la differenza sta nel fatto che Urbani fu disgraziatamente contagiato non trovandosi nel Paese centro dell’epidemia, al contrario dell’oculista Wenliang che, nella Cina cuore dell’emergenza sanitaria, fu vittima della frequentazione quotidiana con pazienti positivi. Gli fu poi fatale un’operazione per un glaucoma effettuata su uno di essi“.

– Per quale motivo nella fase pionieristica della terapia anti-coronavirus i medici cinesi hanno usato alcuni farmaci che in passato erano stati impiegati sul fronte anti-Hiv?
“Degli anti-virali purtroppo non esiste un catalogo farmacologico sterminato. Quelli di cui disponiamo contro i virus responsabili dell’influenza agiscono tutti nella direzione di bloccare le due proprietà grazie a cui il virus aderisce all’organismo, emoagglutinina e neuraminidasi. Non è infrequente però che in casi di grandissima ermergenza (e nel campo virologico ce ne sono tanti) si sperimentino farmaci pensati per altre classi virali, con risultati variabili. Per questa epidemia si è fatto ricorso anche a un farmaco anti-ebola, che però non si è rivelato efficacissimo“.