Il voto di Taiwan è chiaro: nessuna riunificazione con la Cina comunista

di Paolo Zambon –

La popolazione di Taiwan è andata alle urne l’11 gennaio e ha riconfermato la leader del Partito Progressista Democratico (PPD), Tsai Ing-Wen. I numeri della riconferma sono importanti. Il PPD ha dominato raccogliendo il 57,13% dei voti e si è lasciato alle spalle lo storico rivale, il Partito Nazionalista Cinese (Kuomintang) guidato da Han Kuo-yu, di quasi venti punti percentuali ad un deludente 38.61%.
Gli analisti politici non hanno mancato di segnalare come le proteste ad Hong Kong abbiano avuto un impatto notevole sull’elettorato taiwanese, la Cina considera Taiwan una provincia sottoposta alla sua sovranità che prima o poi dovrà accettare di essere riaccorpata al gigante asiatico.
Il discorso di Xi Jinping nel gennaio del 2019, in cui non escludeva l’uso della forza per sistemare la questione taiwanese, è stato un monito che ovviamente non è sfuggito agli abitanti dell’isola.
La politica messa in atto dalla Cina, nota a livello internazionale come “Una Cina, due sistemi”, prevede l’unicità della Cina come entità politica ma concede la possibilità di implementare aree amministrative governate con differenti ordinamenti istituzionali e con sistemi economici diversi. Sulla base di questo concetto la Cina si relaziona con Hong Kong e Macao. Per quanto riguarda Taiwan il modello “Una Cina, due sistemi” è più un auspicio che una concreta realtà, che buona parte della popolazione taiwanese rifiuta in nome di un’indipendenza de facto. Tsai Ing-Wen ha beneficiato politicamente dei tumultuosi avvenimenti ad Hong Kong.
Per il popolo di Taiwan le elezioni sono diventate un’occasione ghiotta per respingere il concetto “Una Cina, due sistemi”, che a loro dire mostra tutti suoi limiti lì dove è implementato.
Anche l’alta affluenza alle urne, il 74,8% degli aventi diritto, nove punti percentuali più alta delle elezioni del 2016, viene interpretata come una reazione di difesa democratica alle pressioni di Pechino. Un messaggio forte inviato da Taiwan soprattutto dai più giovani.
I votanti compresi nella fascia d’età tra i 20 e i 39 anni, 6.6 milioni di elettori, sono stati un’altra arma importante per la riconferma del Partito Progressista Democratico.
Questa segmento di popolazione ha una percezione estremamente negativa delle possibili conseguenze di un’eventuale unificazione con la Cina. Sono nati e cresciuti in una democrazia e percepiscono il gigante cinese come una minaccia alla loro libertà. Questo forte impegno giovanile in favore del PPD, rappresenta anche un segnale chiaro dell’incremento della percezione dell’identità taiwanese a discapito di quella cinese.
Vani sono stati gli sforzi di Pechino di ingraziarsi i giovani taiwanesi. Incentivi economici rivolti ad essi per iniziare attività economiche o l’erogazione di prestiti con le stesse condizioni riservate ai cittadini cinesi, nulla hanno potuto contro il vento democratico che spira dal 1996 sull’isola.
Altrettanto inutili si sono dimostrati i tentativi di influenzare l’esito delle elezioni con l’uso di campagne di disinformazione sui social media che avevano come scopo quello di creare una percezione positiva della Cina.
Il partito Nazionalista Cinese, grande sconfitto, che schierava come candidato presidente il sindaco della città di Kaohsiung, il populista Han Kuo-yu, non è riuscito a bissare i risultati incoraggianti delle elezioni locali del 2018 tra cui aveva spiccato l’elezione di Han Kuo-yu in una tradizionale roccaforte del Partito Progressista Democratico.
Considerato troppo vicino alle posizioni cinesi e fermo sostenitore del “Consenso del 1992” (un accordo vago stipulato tra Taiwan e la Cina nel 1992 che afferma che Taiwan e Cina fanno parte di un’unica Cina lasciando alle due protagoniste libera interpretazione su ciò che questo significa), è uscito malconcio dalla competizione elettorale.
I risultati negativi hanno provocato una serie di mal di pancia all’interno del partito ed una riorganizzazione dello stesso pare inevitabile. Volti nuovi anche anagraficamente parlando per far breccia tra i più giovani sono sull’agenda del Partito Nazionalista Cinese.
Se non dovesse rivedere la sua politica e presentare un cambio generazionale ai vertici, il rischio che il partito più antico dell’isola possa svanire, diventerebbe alto.
Un primo segnale di rinnovamento è dato dalle voci che parlano di un abbandono della politica del “Consenso del 1992”, punto fermo della visione delle relazioni con Pechino del Partito Nazionalista Cinese.
Le reazioni pervenute da Pechino, con il ministro degli Esteri che afferma che non cambierà nulla nell’atteggiamento cinese nei confronti di Taiwan, fanno presagire altri quattro anni di tensione.
Lo stesso ministro ha aggiunto che spera che il mondo starà dalla parte di Pechino opponendosi ad attività secessioniste. L’agenzia di stampa ufficiale cinese ha denunciato che la vittoria di Tsai è frutto di giochi loschi attuati in combutta con le potenze occidentali.
Dall’alleato più importante soprattutto in termini militari, gli Stati Uniti, sono arrivate tramite la figura del segretario di Stato Mike Pompeo le congratulazioni per il risultato ottenuto. Alle congratulazioni ha aggiunto anche le lodi per aver cercato stabilità con il vicino cinese nonostante le pressioni incessanti.
Tsai Ing-Wen in una recente intervista con la BBC ha risposto alla domanda se è a favore dell’indipendenza di Taiwan, affermando che la realtà dice che Taiwan è già una nazione indipendente: con il suo governo, con le sue elezioni, con un prioprio sistema amministrativo e un esercito e che, quindi, non c’è la necessità di dichiarare ufficialmente l’indipendenza.
La Cina negli ultimi anni ha esercitato un’enorme pressione economica sulle nazioni che riconoscono l’indipendenza di Taiwan. A settembre dello scorso anno, il numero dei paesi che mantenevano relazioni ufficiali con Taipei è sceso a 15 dopo che le Isole Salomone e Kiribati, hanno rotto i rapporti diplomatici con Taiwan.
La realtà dell’indipendenza taiwanese deve essere accettata da Pechino, a detta di Tsai. Per rimettere in moto il dialogo parzialmente inceppato proprio in occasione della prima elezione della Tsai nel 2016, è fondamentale questa presa di coscienza della realtà delle cose. “Se non sono pronti ad accettare come stanno le cose non c’è nulla che possiamo offrire che li soddisferà”, ha sottolineato la presidente rispondendo al giornalista che le chiedeva cosa fosse disposta ad offrire per ripristinare il dialogo.
La attendono altri quattro anni di governo con l’ombra di un attacco militare cinese. Attacco che Tsai non esclude. E per difendersi dalla minaccia militare giustifica l’organizzazione militare (con il supporto statunitense) e diplomatica intrapresa negli ultimi anni. Ma pare rassicurare quando afferma che “un’eventuale invasione dell’isola da parte dell’esercito cinese comporterebbe un esborso economico enorme per Pechino”.

Tsai Ing-wen. (Foto WikiCommons).