di Giuseppe Gagliano –
Per decenni l’India ha rappresentato una voce morale nel consesso internazionale. Nata dal trauma del colonialismo britannico e guidata da figure come Nehru, il Paese ha sostenuto le lotte anticoloniali in Africa, si è opposto all’apartheid sudafricano e ha rifiutato di criminalizzare i movimenti di liberazione nazionale, quando l’Occidente li etichettava come “terroristi”. L’India dell’indipendenza era una democrazia giovane ma ambiziosa, che cercava nel diritto internazionale la propria legittimità morale.
Oggi tutto questo sembra lontano. Il governo di Narendra Modi, insediatosi per la terza volta nel 2024, ha trasformato il volto dell’India. Se a livello retorico continua a rivendicare autonomia strategica, nella pratica New Delhi mostra una crescente convergenza con le posizioni autoritarie di potenze come Russia e Cina. E nei consessi multilaterali, dalle Nazioni Unite al G20, l’India ha cominciato a votare, parlare e negoziare come un Paese che non crede più nell’universalismo dei diritti umani, ma nella loro strumentalizzazione politica.
La svolta è tangibile. Nel 2023 l’India si è opposta, insieme a Russia e Cina, a una risoluzione ONU che condannava le violazioni dei diritti umani in Iran. Ha ostacolato l’accreditamento delle ONG critiche del suo governo presso l’ONU. Ha respinto una proposta umanitaria che prevedeva esenzioni alle sanzioni internazionali per garantire cibo e farmaci ai civili. Una posizione formalmente rivolta al Pakistan, ma che di fatto mina principi di applicazione universale.
Dietro il linguaggio del multilateralismo e della sicurezza, si nasconde una mutazione profonda: l’India ha assunto un ruolo guida nel ridisegnare le regole della governance digitale mondiale a vantaggio delle autocrazie. Insieme a Cina e Russia, New Delhi promuove la “sovranità dei dati”, cioè l’obbligo per le aziende globali (come Alphabet o Meta) di localizzare i dati all’interno dei confini nazionali. Un principio che, dietro il paravento della sicurezza, legittima nuove forme di sorveglianza e repressione del dissenso.
Il modello è già realtà. L’India Stack, la più ambiziosa infrastruttura pubblica digitale del mondo, è ormai uno strumento di controllo capillare: gestisce pagamenti, identità, dati sanitari. Viene proposto ai paesi del Sud globale come modello “democratico” di sviluppo, ma è stato già criticato per la scarsa protezione della privacy, le barriere all’accesso e il rischio di esclusione sociale. Con il sostegno dell’ONU e del G20, New Delhi sta esportando nel mondo un sistema che, pur tecnologicamente avanzato, indebolisce la cittadinanza come spazio di diritti.
A questo si aggiunge una diplomazia sempre più permeata dall’ideologia suprematista hindu. Le ambasciate indiane ospitano eventi religiosi, promuovono la narrativa del “rinascimento induista” e spesso collaborano con gruppi accusati di diffondere odio. Modi stesso ha risposto alle accuse di omicidi extraterritoriali affermando: “Questa è la nuova India. Entriamo in casa vostra per colpirvi”. Una frase che racconta molto dell’India che il BJP vuole costruire: orgogliosa, vendicativa, autoritaria.
Eppure l’India non è ancora una dittatura. Le elezioni del 2024, pur segnate da squilibri e intimidazioni, hanno mostrato un’opposizione viva, una società civile attiva, una stampa che, seppur sotto pressione, non tace. Ma proprio per questo il rischio è più insidioso: la transizione da democrazia liberale a democrazia illiberale può consumarsi gradualmente, senza colpi di Stato, attraverso l’erosione dei diritti, la manipolazione dei consensi e l’internazionalizzazione di un modello repressivo mascherato da successo tecnologico.
In un’epoca di crisi dell’ordine liberale, l’India sta scegliendo da che parte stare. E per la prima volta da decenni, non è quella dei diritti, della libertà e della giustizia universale.