Indonesia. L’Onu rinnova gli appelli per la Papua Occidentale

di Alessandro Pompei

Ad un’esame del Consiglio per i Diritti umani delle nazioni unite (UNHRC), tenutosi nel 2022 in occasione della presentazione del rapporto curato dai relatori speciali Francisco Cali Tzay (Diritti delle popolazioni indigene), Morris Tidball-Binz (Esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie) e Cecilia Jimenez-Damary (Diritti umani degli sfollati interni), sono state sollevate una serie preoccupazioni per la violenza ancora oggi in corso nella Papua P
Occidentale. La regione è divenuta parte dell’Indonesia nel 1969 grazie ad un controverso referendum noto come “Act of Free Choice”, in cui 1025 persone selezionate dall’esercito indonesiano nella Nuova Guinea Occidentale hanno votato all’unanimità a favore del controllo indonesiano.
Benché il nome possa sembrare una storia dei Monty Python, le conseguenze della decisione indonesiana non sono state le medesime di uno spettacolo del celebre gruppo comico britannico (che tra l’altro proprio nel 1969 vedeva il suo debutto). Infatti a pochi mesi dall’annessione indonesiana cominciarono a crearsi i primi gruppi indipendentisti nel partito Free Papua Movement (OPM), cui seguì poco dopo l’istituzione del braccio armato del movimento il West Papua National Liberation Army (TPN-PB); tempestive arrivarono le prime repressioni indonesiane sulla popolazione civile papuana, le quali secondo Ronald Gordon Crocombe, docente alla University of the South Pacific nelle isole Fiji, comportarono tra le 100mila e le 400mila vittime (“Asia in the Pacific Islands: Replacing the West”, 2007).
La risposta indonesiana è stata giudicata come “assolutamente sproporzionata”, tanto dagli osservatori Onu quanto da diverse ong tra cui Amnesty International, ed a ben ragione, in quanto le milizie del TPM-PB hanno più archi e lance che fucili. La repressione indonesiana è stata così violenta che è arrivata al punto in cui per molti attivisti innalzare la bandiera indipendentista, la Flying Papuan Mornig Star, è equivalso ad una condanna a morte.
Un emblematico esempio di questi eccessi si è avuto nell’ottobre 2010. Attraverso il sito Internet dell’associazione per i diritti umani “Survival International” sono stati diffusi video con brutali torture ed omicidi perpetrati dai soldati indonesiani nei confronti di inermi contadini papuani. Nonostante le scuse del presidente all’epoca in carica Susilo Yudhoyono, il sito ha subito diversi tentativi di oscuramento, che per le loro tempistiche difficilmente potevano essere ricondotti ad un generico attacco hacker.
La repressione condotta nel silenzio non fu condotta solo all’epoca del regime militare di Suharto: non è mai cessata, come prova il rapporto dell’UNHRC, ed è sempre celata dall’indonesia grazie ad una feroce repressione contro la stampa nazionale. Sono infatti diversi i giornalisti arrestati ed uccisi, mentre l’ingresso nelle province papuane alla stampa internazionale è ancora severamente vietato salvo l’ottenimento di permessi speciali.
La repressione governativa verso la popolazione indigena è stata soprattutto affiancata negli ultimi 20 anni alla colonizzazione indonesiana; nel 1971 gli indigeni erano il 97% della popolazione, oggi sono poco più della metà, ed il governo indonesiano cerca in questo modo di diluire le ambizioni secessioniste dei papuani portando in loco coloni indonesiani.
La 41ma revisione periodica universale dell’UNHRC ha quindi sollevato preoccupazioni per le violazioni dei diritti nella regione, in ragione di nuove segnalazioni di escalation della violenza, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni e restrizioni agli osservatori indipendenti ed ai media, nonché il ricorso da parte delle forze armate di Giacarta a vere e proprie pratiche di intimidazione volte all’allontanamento degli indigeni da aree in cui sono attive le milizie indipendentiste del TPM-PB, zone vario titolo considerate aree di marcato interesse economico da parte di compagnie multinazionali e nazionali che operano grazie a licenze rilasciate dal governo indonesinao.
Le azioni del governo in Papua Occidentale hanno storicamente poco a che fare con la diplomazia. Le popolazioni indigene della papuasia continuano ad essere apertamente scettiche sulle concessioni delle autonomie e sulle promesse di trarre dagli sfruttamenti minerari il 70% delle royalties e da quelli forestali l’80%, com’era stato stabilito nel 2002, anche perchè tali benefici non hanno affatto mutato le condizioni economiche degli indigeni. Malgrado l’enorme ricchezza naturale, la provincia di Papua rimane così una delle province meno sviluppate dell’Indonesia, all’11mo posto tra tutte le province e con un indice dello sviluppo umano di 0.604, il più basso tra tutte le realtà indonesiane. L’enorme impatto che le attività estrattive arrecano all’ambiente ed alle comunità indigene ad esso strettamente connesse arreca danno a quello che è uno degli antroposistemi a più alta diversità del pianeta: delle circa 1000 lingue parlate in papuasia, ben 250 sono parlate in Papua Occidentale da altrettante tribù, e nell’area si pensa vi siano ancora delle realtà in attesa di un primo contatto con il resto del mondo.
L’enorme ricchezza di risorse naturali dell’area, per esempio nel solo distretto minerario di Grasberg nel periodo che va dal 1990 al 2019 sono state estratte più di 1502 tonnellate d’oro e 12 milioni di tonnellate di rame, è il grande motivo d’interesse del governo indonesiano e motore della macchina della repressione, per cui è difficile pensare che la questione potrà essere risolta senza una presa di posizione da parte della comunità internazionale, ed in questo senso si muove l’iniziativa dell’UNHRC del 2022, in cui è stato raccomandato a Giacarta di accettare la visita di alcuni rappresentanti dell’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani in Papua occidentale e formulato l’invito a condurre indagini sulle esecuzioni extragiudiziali e sulle violazioni dei diritti umani nella regione.
In risposta al rapporto il ricercatore di Human Rights Watch, Andreas Harsono, ha affermato che l’Indonesia è stata “difensiva” in risposta alle preoccupazioni sollevate sulla Papua Occidentale e ha sostenuto che la resistenza armata è in corso fin dagli anni ’60.
“Ciò non dovrebbe legittimare la chiusura della Papua Occidentale rendendo più difficile la visita degli osservatori delle Nazioni Unite”, ha aggiunto, sottolineando che le misure dell’Indonesia contro la resistenza armata nella Papua Occidentale sono state “eccessive” e che la divisione dell’area in cinque province creerebbe nuovi problemi invece di risolverli.
Per il direttore Diritti umani del ministero degli Esteri indonesiano, Achsanul Habib, Papua è parte integrante dell’Indonesia in base al diritto internazionale, ed il governo ha tutto il diritto di affrontare i problemi di sicurezza dovuti alle azioni di quelli che ha definito “gruppi separatisti armati”. “Le infrastrutture critiche, lo sviluppo umano, la pace e la sicurezza continuano a essere compromesse dagli atti terroristici commessi da questi gruppi, che dal 2018 hanno intensificato le loro azioni contro i civili e le infrastrutture critiche”, ha affermato Habib.