di Giuseppe Gagliano –
Mentre la tensione tra Iran e Israele si trasforma sempre più in una guerra asimmetrica ad alta intensità, l’intervista concessa da Alain Chouet, ex capo del servizio di sicurezza interna della DGSE francese, offre una lucida dissezione del conflitto di intelligence e delle sue implicazioni strategiche. Sullo sfondo dell’operazione israeliana “Rising Lion”, Chouet svela i meccanismi di un confronto silenzioso, ma letale, in cui l’Iran appare oggi vulnerabile e in parte disarmato.
Secondo Chouet, l’operazione “Rising Lion” ha dimostrato non solo la superiorità operativa dell’aviazione israeliana, ma anche il dominio assoluto dell’intelligence dello Stato ebraico. In pochi giorni, Israele ha neutralizzato la rete di difesa iraniana con una manovra tanto efficace quanto silenziosa: sorvolando territori arabi senza incontrare resistenza o proteste, ha svelato una complicità regionale tacita e imbarazzante per molti governi mediorientali.
Il Mossad rafforzato da una visione operativa estremamente concentrata sulle minacce regionali, ha costruito nel tempo una rete umana e tecnica in Iran capillare, penetrante, resiliente. Questa capacità deriva anche dalla sua organizzazione strutturata: a differenza dei servizi occidentali a vocazione planetaria, il Mossad e l’Aman si focalizzano esclusivamente sul “nemico prossimo”.
Il giudizio di Chouet sull’intelligence iraniana è netto: più che una vulnerabilità apparente, si tratta di una debolezza strutturale. I servizi iraniani, fossilizzati sulla difesa del regime e dei suoi apparati (in primis quelli balistici e nucleari), si sono auto-esclusi dalla cooperazione internazionale, hanno rinunciato al lungo periodo, trascurato l’intelligence umana e nutrito un’illusione di invulnerabilità grazie alla repressione interna. In tal modo, hanno perso la capacità di anticipare la penetrazione esterna e, soprattutto, quella interna. Hanno dimenticato che il nemico può nascondersi anche tra le proprie fila.
Israele dimostra che nessuna tecnologia sostituisce l’occhio dell’uomo sul campo. Secondo Chouet, l’occidente e in particolare i servizi europei hanno preferito investire in sistemi tecnici quantificabili, ovvero cyber, intercettazioni, criptografia, trascurando il lungo e incerto lavoro del reclutamento umano. Ma solo l’intelligence umana permette di decifrare il segreto delle intenzioni e agire nei gangli stessi dell’apparato nemico. Il Mossad ha saputo costruire negli anni una rete composta da agenti locali, logisti, infiltrati e sostenitori all’interno della comunità ebraica iraniana rimasta.
La cooperazione tra Mossad e CIA, secondo Chouet, è una realtà consolidata, soprattutto nel supporto tecnico (immagini satellitari, guida ai bersagli). Ma Israele non ha bisogno di altro: la sua capacità autonoma è sufficiente a condurre operazioni complesse. E i servizi francesi? Chouet è scettico: non solo non avrebbero valore aggiunto da offrire, ma probabilmente non avrebbero neppure l’autorizzazione politica per partecipare a operazioni tanto rischiose. Quanto ai servizi arabi, sono strumenti di regime più che veri servizi di intelligence.
Chouet traccia un profilo desolante della diaspora iraniana, divisa, marginale e incapace di parlare al Paese. Al contrario, riconosce nella gioventù iraniana interna una forza potenziale di cambiamento: seppur acefala, disorganizzata e priva di strutture, essa rappresenta la componente più dinamica, insofferente e maggioritaria del Paese. Ma qualsiasi sostegno occidentale, ammonisce, sarebbe controproducente: legittimerebbe la repressione del regime che li accuserebbe di essere “agenti stranieri”.
A differenza degli Stati mediorientali artificiali emersi dal crollo ottomano, l’Iran è una civiltà millenaria con istituzioni complesse. Chouet ritiene improbabile uno scenario “alla siriana”: la caduta del clero potrebbe portare a una transizione controllata grazie a élite economiche, amministrative e anche militari pronte a subentrare. L’elemento religioso, ormai diventato un fattore di rendita per un terzo della popolazione (Pasdaran, milizie, veterani), potrebbe essere sacrificato per salvaguardare l’intero sistema di potere.
Nonostante la pluralità etnica (persiani, curdi, azero, baluchi, arabi), Chouet non crede in uno smembramento. Durante la guerra Iran-Iraq, le truppe arabe iraniane non disertarono. Il nazionalismo iraniano è un collante più forte delle differenze. Israele avrebbe colpito aree curde e azere per stimolare fratture interne. Ma come già accaduto in Algeria con il tentativo francese di dividere arabi e berberi, la manovra appare destinata al fallimento: di fronte al nemico esterno, l’unità prevale.
Per Chouet, una guerra regionale aperta è improbabile: nessun esercito locale può reggere il confronto con Israele, e nessuno ha interesse a combattere apertamente. Anzi, molti leader arabi vedono con favore l’aggressività israeliana, ma temono la reazione delle loro popolazioni. Il vero rischio per Israele è la perdita di consenso internazionale: Netanyahu sta dissipando decenni di legittimità, favorendo un isolamento crescente.
Chouet chiude con un monito amaro: Israele, forte di vittorie tattiche, sta forse perdendo la guerra strategica, compromettendo alleanze e consensi da cui dipende la sua stessa sopravvivenza politica nel lungo periodo.