Iran. Crisi con Usa: le vie percorribili per uscire dall’impasse

di Manuele Scardaccio

L’ attuale crisi tra l’Iran e gli Stati Uniti somiglia molto a una partita a poker, dove i bluff e le contromosse svolgono un ruolo importante. Attorno a questo tavolo una cerchia di consiglieri, composti da Israele, Emirati Arabi e Arabia Saudita, suggeriscono a Trump e all’ayatollah Ali Khamenei mosse e contromosse, soffiando sul vento del fuoco di uno scontro.
Entrambe le parti dunque sono impegnate a compiere mosse rischiose; da una parte l’amministrazione Trump cerca di stringere il cappio attorno al collo dell’Iran, spingendo affinché quest’ultimo venga isolato come l’Iraq negli anni 90, quando il regime di Saddam Hussein divenne capace di acquistare solo cibo e medicine in cambio di petrolio.
L’Iran da parte sua sta cercando di fare pressione sugli Stati Uniti, sia diplomaticamente che militarmente. Le sanzioni statunitensi hanno avuto un certo peso sull’economia iraniana e il regime sta soffrendo, mentre la disaffezione popolare sta crescendo. La Repubblica Islamica sa che non può sopravvivere a lungo senza introiti petroliferi e di conseguenza potrebbe essere alla ricerca di uno scontro con gli Stati Uniti che sia abbastanza limitato da non provocare una guerra totale, ma anche abbastanza significativo da amplificare la sua immagine tra il pubblico in generale e fare pressione su Washington per riconsiderare la sua posizione.
Entrambe le potenze stanno reciprocamente testando la loro resistenza, senza conoscere i limiti di ciascuno ed aumentando di fatto la possibilità di un errore di calcolo che potrebbe determinare l’escalation di un conflitto, dato che entrambe le potenze non possono permettersi di fare concessioni o cedere al tavolo delle trattative.
Ma quali sono le possibili soluzioni a questa crisi?

La via del conflitto.
Sulla carta una guerra con Teheran non sembra essere una grande sfida per Washington.
Misurato in termini di PIL, gli Stati Uniti sono 44 volte più ricchi della Repubblica Islamica, investono quasi 70 volte di più nelle proprie forze armate e hanno un numero di aerei 15 volte superiore a quello dell’Iran, in quanto la maggior parte delle forze aeree iraniane è costituita da obsoleti aerei statunitensi, cinesi e sovietici. Gli Stati Uniti dunque potrebbero infliggere ingenti danni all’Iran, tuttavia li vincolerebbero in un altro conflitto mediorientale per gli anni a venire. La guerra e le sue conseguenze probabilmente costerebbero centinaia di miliardi di dollari ai contribuenti americani, con il risultato di divenire uno scontro particolarmente impopolare, come l’Iraq e l’Afghanistan determinando un grosso fardello da portarsi dietro non solo per Trump ma anche i futuri presidenti degli Stati Uniti
Tuttavia il regime iraniano può rispondere a questo in modi imprevedibili; l’Iran infatti possiede una potente capacità di compiere dei Cyber-attacchi che potrebbero, in teoria, creare grossi danni alle reti americane e danneggiare l’economia della stessa. Si ritiene che l’Iran sia responsabile di un attacco informatico che nel 2012 ha danneggiato 35mila computer della compagnia petrolifera saudita Aramco.
Inoltre nello scontro l’Iran potrebbe usufruire del Corpo della Guardia Rivoluzionaria (IRGC, Pasdaran), il quale svolge un ruolo più importante rispetto alle forze militari convenzionali. L’IRGC può minacciare le rotte di navigazione nel Golfo di Oman e nel Mar Caspio attraverso l’applicazione di un’ampia varietà di risorse che ha a sua disposizione, inclusi sottomarini, siluri intelligenti, mine di terra e di acqua a lungo raggio e missili anti navi installati sulla terraferma.

Il negoziato: una strada tortuosa.
L’ipotesi di un’escalation della crisi in corso in un conflitto sembra essere una situazione sempre più probabile, eppure rimangono dei percorsi chiari di negoziato, che potrebbero portare alla distensione della situazione, certo con le loro insidie, ma pur sempre percorribili.
Innanzitutto, nell’ambito del Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) le restrizioni sull’acquisto di armi da parte dell’Iran sul mercato internazionale e i beni e la tecnologia che possono essere utilizzati per costruire un’arma nucleare scadono rispettivamente nel 2020 e nel 2030. Sarebbe utile che l’amministrazione Trump ponga nuove disposizioni che impedirebbero l’Iran, in modo definitivo di sviluppare un’arma nucleare. Tuttavia è improbabile che l’Iran accetti di rinunciare al suo programma nucleare a vita, poiché è diventato una questione di orgoglio nazionale.
Allo stesso tempo Washington chiede a Teheran di rinunciare al suo programma di missili balistici, che attualmente gli permette di colpire obiettivi in tutto il Medio Oriente e forse fino all’Europa sudorientale. Il problema è che il regime iraniano considera le sue capacità missilistiche come il principale strumento di deterrenza, date le sue deboli forze convenzionali, ed inoltre l’Iran non accetterebbe di rinunciare alle sue ambizioni regionali.

La comunità internazionale può risolvere la controversia?
L’attuale impasse tra Stati Uniti e Iran, accentuata dalle tensioni sul programma nucleare iraniano, poteva essere evitata se gli Stati Uniti non si fossero ritirati dal JCPOA e se fosse stato definito un quadro chiaro per il dialogo e il riavvicinamento alla cooperazione.
Se la struttura del JCPOA fosse rimasta al suo posto, avrebbe potuto fornire degli ami per ridurre la situazione attuale e risolvere le questioni sottese relative al programma nucleare di Iran. Il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dal JCPOA avrebbe consentito alla Commissione mista di affrontare le accuse di violazioni iraniane del JCPOA e del trattato di non proliferazione nucleare. Nello scartare il JCPOA gli Stati Uniti hanno perso un apparato progettato dagli Stati Uniti stessi, il cui scopo era controllare e contenere il programma di arricchimento dell’uranio dell’Iran, in collaborazione con gli altri partecipanti, l’Unione Europea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, le Nazioni Unite, e Iran.
A questo punto, al fine di riprendere il monitoraggio e le attività di investigazione in Iran che possono essere di gran lunga ridotte in scala e facilità, l’unica opzione, salvo il risorgere del JCPOA, è che il Consiglio di sicurezza dell’ONU agisca sotto il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite per creare una Commissione Speciale. Tale commissione per monitorare le attività nucleari iraniane potrebbe ridurre le tensioni tra Stati Uniti e Iran.
Una componente importante di una politica di successo verso l’Iran deve essere la reintegrazione dell’Iran nella regione e lo sviluppo di nuove disposizioni di sicurezza nel Golfo. E’ vero, gli esiti dei negoziati con l’Iran per il programma nucleare sono essenzialmente in mano di paesi come gli Stati Uniti, l’Iran, i più grandi paesi europei, Cina e Russia. Tuttavia i paesi del GCC hanno un ruolo importante da poter svolgere nel difficile processo di reinserimento dell’Iran nella comunità internazionale. La piena reintegrazione può essere solo il risultato di negoziati ben riusciti, ma ilprocesso deve iniziare da subito se si vogliono ottenere risultati. La normalizzazione delle relazioni tra i paesi del GCC, l’Iraq e l’Iran sarebbe un passo positivo in questo processo di reinserimento. Esso contribuirebbe anche a stabilizzare la regione, diminuendo le tensioni e la possibilità di conflitti su questioni bilaterali che potrebbero innescare problemi più seri.

Conclusioni.
Il presidente Donald Trump non vuole conflitti. L’ayatollah Khamenei non vuole il collasso economico. Eppure è lì che stanno andando le cose. Il suo regime è assalito da un’inflazione di quasi il 50 percento, una valuta al collasso, scioperi sindacali persistenti e un irrefrenabile movimento per i diritti delle donne. Oltre i suoi confini l’Iran sta spendendo diversi miliardi di dollari ogni anno per armare e finanziare alleati regionali tra cui il regime siriano di al-Assad, gli Hezbollah libanesi, le milizie sciite irachene e gli Houthi dello Yemen, interessi che offrono pochi ritorni finanziari.
In questo contesto, il presidente americano Donald Trump sta perseguendo un’implacabile campagna di pressioni economiche apparentemente destinata a forzare la capitolazione dell’Iran o il suo crollo. Innanzitutto, nel maggio del 2018, Trump si ritirò unilateralmente dall’accordo nucleare iraniano. Nell’aprile 2019 il Dipartimento di Stato ha ufficialmente definito la più potente istituzione politica ed economica dell’Iran, il Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (IRGC), come un’organizzazione terroristica. E ora il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato che nessun paese riceverà ulteriori esenzioni per importare petrolio iraniano, un tentativo di soffocare la linfa vitale dell’economia iraniana.
Il braccio di ferro tra le due potenze sembra dunque rimanere costante e la situazione non pare facilmente risolvibile nell’immediato.