Iran. Il perché delle proteste

di Dario Rivolta * –

In merito alle manifestazioni avvenute in Iran, nei giorni scorsi alcuni commentatori hanno (volutamente?) equivocato sia sulle motivazioni sia sulle possibili evoluzioni di quanto stava succedendo. Qualcuno ha visto una riedizione dell’”onda verde” del 2009 e il presidente Usa Donald Trump si è persino spinto ad ipotizzare un qualche aiuto (quale?) ai manifestanti che, a suo dire, chiedevano la fine del regime. Niente di più sbagliato! Innanzitutto non si è trattato dell’inizio di una potenziale rivoluzione contro il regime, bensì di una disordinata protesta popolare nata soprattutto per la profonda e diffusa insoddisfazione economica. Tra l’altro aggravata per alcuni dal loro coinvolgimento in certe specie di “catena di sant’Antonio” finanziarie che li ha messi sul lastrico. In secondo luogo una qualunque interferenza straniera raccoglierebbe poche minoranze a sostegno e, al contrario, ricompatterebbe la stragrande maggioranza degli iraniani contro il “nemico”.
La corretta chiave di lettura di questi avvenimenti va ricercata nella frammentazione della classe politica iraniana suddivisa tra conservatori e riformisti, ove entrambe le forze hanno ulteriori e profonde differenziazioni al loro interno. La situazione economica è indubbiamente difficile anche per il fatto che la firma dell’accordo sul nucleare, con la conseguente e attesa fine di tutte le sanzioni, aveva suscitato nella popolazione aspettative di nuovo benessere che sono andate totalmente deluse nella realtà. Il tenore di vita generale non si è elevato, la disoccupazione, soprattutto in certe aree del Paese, è attorno al 30 e più per cento e gli investimenti stranieri, pur ampiamente pubblicizzati, sono arrivati solo in minima parte. È sullo scontento diffuso e sulla mancanza di prospettive per molti giovani che le forze conservatrici hanno incoraggiato le proteste, indirizzate principalmente contro il governo di Hassan Rohani, ritenuto responsabile di questo fallimento. Il fattore detonante è stato l’annuncio di aumenti di alcuni generi di prima necessità e la fine dei sussidi in essere come quello sulla benzina. Non è da sottovalutare che i disordini siano partiti da città da sempre considerate feudi dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad e del conservatore Raisi, quest’ultimo sconfitto da Rohani nelle ultime elezioni.
La notizia del presunto arresto dell’ex presidente Ahmadinejad è verosimile, ma è molto probabile che lo si utilizzi come capro espiatorio per giustificare quanto successo e offrire una lettura riduttiva dei fatti. Chi ne esce vincente sono le Guardie Rivoluzionarie, i Pasdaran, che hanno probabilmente favorito i disordini e, giocando due ruoli in partita, sono poi intervenuti per sedarli. Una volta partite le proteste è sempre impossibile per chiunque controllarne tutte le evoluzioni e infatti gli slogan urlati dai protestatari, divisi in gruppi indipendenti l’uno dall’altro, sono stati i piu’ variegati: da “via il governo” (Rohani) a “morte al dittatore” (Khamenei), da richieste di finirla con la corruzione alle critiche per gli aiuti (e le spese) in Paesi stranieri. Anche qualche nostalgico urlo a favore del ritorno dei Pahlavi ha avuto un qualche piccolo sostenitore. Il fatto che gli slogan fossero così eterogenei è la più evidente dimostrazione che non siamo di fronte a nulla di destinato ad avere uno sviluppo politico futuro.
Con ciò non si deve però negare che la società iraniana sia in forte evoluzione. La maggior parte della popolazione è anagraficamente molto giovane e non ha vissuto né gli albori della rivoluzione contro lo scià né ha partecipato alla guerra sanguinosa contro l’Iraq durata ben otto anni. L’istruzione ad alti livelli e l’uso di Internet sono molto diffusi, e la pratica dei dettami religiosi è di carattere superficiale, esattamente come accade da noi in Italia. La gran parte dei “fedeli” continua a dichiararsi “islamica”, ma se volessimo analizzare dal punto di vista teologico il contenuto delle loro fedi vedremmo trattarsi più di un “teismo” che di un dogmatico aderire all’ortodossia. Come succede tra i cristiani, anche nel mondo islamico e in Iran in particolare le forme più esteriori vengono genericamente rispettate. Si partecipa ad alcune cerimonie religiose, si rispetta (in pubblico) il Ramadan e, se interrogati, si fa professione di fede. Tuttavia, nel comportamento privato quotidiano i precetti religiosi sono sempre meno rispettati e, ad esempio, nonostante la totale proibizione non è difficile trovare chi beve alcool comprato di contrabbando, vino prodotto abusivamente nelle campagne o mangia e fuma durante il periodo del digiuno rituale. Tutti lo sanno ma, come succede spesso alle dittature in Paesi di cultura secolare ognuno fa finta di non vedere. Almeno fino a che le infrazioni non diventino troppo evidenti o siano commesse da cittadini qualunque e non “pericolosi”. Se chi governa in Iran volesse veramente, e sempre, applicare ciò che le leggi ufficiali esigono, quel potere non durerebbe molto. Savonarola lo imparò a sue spese.
In questo quadro composito sono sempre più numerosi gli individui insofferenti verso il regime e da tempo aspettano un cambio di passo e di metodo che però tarda ad arrivare. Che il sistema riesca a modernizzarsi è la speranza di tutti coloro che hanno votato con fiducia per la presidenza Rohani alle ultime elezioni e che hanno salutato con manifestazioni di gioia la firma del trattato JCPOA. Quella firma e la rielezione del presidente considerato “moderato” avevano acceso nei più la certezza che l’economia sarebbe ripartita subito e che tutti gli strati della popolazione ne avrebbero beneficiato. Purtroppo, ogni cambiamento importante nel tenore generale di vita di una popolazione richiede tempo e i risultati diventano visibili solo dopo anni, attraversando nel frattempo miglioramenti spesso impercettibili. In Iran il processo è ancora più complicato a causa di molti ostacoli intrinsechi al regime stesso e alle abitudini diffuse. Anche se immediatamente dopo la firma ci sono state ondate di businessmen stranieri e numerosi accordi preliminari per nuovi investimenti e per l’acquisto di know-how sono stati firmati, poco si è veramente realizzato. Innanzitutto molte delle iniziative previste, pur concordate con il governo, si sono impantanate nel dedalo della burocrazia iraniana. Quest’ultima è visibilmente maestra di inefficienza e piena di cavillose procedure. A rallentare il tutto e scoraggiare molti investitori è la corruzione capillare che permea quasi tutti i livelli pubblici. Se aggiungiamo l’atteggiamento ostile del presidente americano con la minaccia di sanzionare negli Usa chiunque faccia affari con l’Iran si comprende la reticenza degli investitori stranieri. Di conseguenza il bengodi prossimo futuro promesso dal governo è ancora ben lontano dal realizzarsi.
C’è però anche un’altra ragione che spiega la difficoltà dell’economia a ripartire ed è l’asfissiante e invasiva presenza dei Pasdaran (le Guardie rivoluzionarie) nell’economia del Paese. Loro sono il potente gruppo che più si è sentito danneggiato dalle aperture all’occidente e coloro che maggiormente temono di poter perdere i propri privilegi se l’esperimento riformatore dovesse riuscire. Sin da prima delle elezioni che hanno visto trionfare Rohani, i vari conservatori han fatto di tutto per boicottare e, ove possibile sabotare, i tentativi riformatori. La lotta per il potere è ancora in corso con fasi alterne e queste manifestazioni sono servite a dimostrare l’”indispensabilità’” del ruolo di Pasdaran e accoliti per mantenere l’ordine e la stabilità nel Paese. Non è casuale che loro e i Basiji, i fanatici miliziani in borghese, abbiano lasciato passare del tempo prima di agire. Il risultato di quanto accaduto sposta a loro favore gli equilibri di forza e cio’ è tanto piu’ importante in un momento in cui si stanno preparando tutte le “armi” per decidere il successore di Khamenei, notoriamente molto malato.
Ovviamente nessun politico iraniano può ammettere che ciò che sta succedendo sia, in fondo, una lotta intestina ed è piu’ conveniente accusare genericamente gli stranieri “nemici dell’Iran” o ridurre il tutto alla responsabilità di una sola persona. Tuttavia, pur essendo certo che Arabia Saudita, Stati Uniti e gli espatriati “Mujaheddin del Popolo” stiano gioendo per questi disordini, è estremamente improbabile che dietro le manifestazioni ci sia una loro ispirazione o che il sistema sia vicino al collasso.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.