Iran. Pezeshkian, Larijani e la battaglia sul nucleare. Il braccio di ferro tra aperture e ortodossia

di Giuseppe Gagliano

Masoud Pezeshkian, presidente iraniano moderato e pragmatico, eletto con la promessa di riaprire canali diplomatici con l’Occidente, si trova oggi ostaggio delle dinamiche interne al potere iraniano. La sua volontà di rilanciare i colloqui sul nucleare si scontra con la feroce opposizione di settori potenti della Repubblica Islamica: il Parlamento dominato dai conservatori, i vertici del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) e parte dell’apparato di intelligence. È una resistenza organizzata, strutturata e finalizzata a impedire ogni compromesso con l’Occidente.
A guidare il fronte del rifiuto c’è Mojtaba Zolnour, parlamentare ultraconservatore con stretti legami con l’IRGC e già membro della Commissione per la sicurezza nazionale. Insieme a lui, una rete di deputati conservatori sta promuovendo una serie di misure parlamentari che mirano a vincolare legalmente ogni possibile negoziato sul nucleare all’approvazione preventiva del Majlis. Tra le richieste principali: il divieto di accettare ispezioni rafforzate dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, il rifiuto del ritorno al JCPOA nei termini precedenti al 2018, e la precondizione della revoca di tutte le sanzioni prima di ogni concessione tecnica.
Questa posizione, sostenuta informalmente dall’IRGC, si fonda su due pilastri: la sfiducia assoluta verso gli Stati Uniti e il timore che un’apertura sul nucleare possa innescare anche un’apertura politica interna, minando l’egemonia dell’apparato teocratico-militare.
Accanto al presidente, si schierano invece alcuni figure chiave dell’apparato statale e diplomatico. Tra questi spicca Mohammad Javad Zarif, ex ministro degli Esteri, che pur non ricoprendo attualmente incarichi ufficiali, esercita un’influenza non marginale sulla linea estera pragmatica. Altri nomi vicini al presidente includono tecnocrati del Ministero dell’Economia, che vedono nel rilancio dell’accordo nucleare l’unica via per contenere il collasso monetario e rilanciare gli investimenti esteri. Ma il loro peso resta limitato.
In questo scenario teso, l’atteggiamento della Guida suprema Ali Khamenei è decisivo. Pubblicamente, Khamenei ha mantenuto una posizione ambivalente: da un lato ha ribadito il diritto dell’Iran a mantenere un programma nucleare “pacifico”, dall’altro ha più volte delegittimato l’Occidente come interlocutore affidabile. Fonti interne al Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale (SNSC) indicano che Khamenei non ha dato via libera definitivo alla riapertura dei colloqui, lasciando spazio a un’interpretazione tattica: sfruttare la disponibilità del presidente senza compromettere la linea ideologica.
In questo contesto la nomina di Ali Larijani come nuovo segretario del SNSC al posto del generale Ali Akbar Ahmadian ha un valore strategico. Larijani, ex presidente del Parlamento ed ex negoziatore nucleare, è una figura di compromesso. È conservatore nei valori, ma capace di interloquire con l’Occidente. Il suo ritorno segnala un possibile ribilanciamento interno: il tentativo di costruire un ponte tra le istanze del presidente e le rigidità dei settori più ideologizzati. La rimozione di Ahmadian, più legato alle strutture militari, appare quindi come un gesto calibrato per sbloccare l’impasse, senza però rompere gli equilibri interni.
Dal punto di vista strategico, l’Iran si trova in un momento di transizione. Le sanzioni hanno indebolito l’economia, ma non piegato il regime. Le proteste interne sono sotto controllo, ma la base sociale è esausta. In questo quadro, la partita nucleare torna a essere lo strumento principale per ridefinire il rapporto con l’esterno, guadagnare tempo e risorse, senza cedere sulla forma di regime. Pezeshkian lo sa. Ma il sistema, nel suo insieme, è ancora diviso tra chi vuole trattare per sopravvivere meglio e chi vuole resistere per non cambiare mai.