Israele. 170 km di coste invase dal petrolio

di C. Alessandro Mauceri

Il governo israeliano sta cercando di fare chiarezza sulle cause che hanno portato 170 km di coste israeliane e non solo ad essere coperte di petrolio. Circa il 40 per cento dell’intera costa israeliana, ma anche i fondali, sarebbero stati interessati. Alcuni l’hanno definita la peggiore catastrofe ambientale degli ultimi dieci anni.
Secondo una prima ricostruzione, l’incidente si sarebbe verificato in mare aperto, al largo delle coste di Israele: il petrolio fuoriuscito da una nave che viaggiava a circa 50 km dalla costa, durante una tempesta lo scorso 11 febbraio, ha poi raggiunto le coste israeliane trasportato dalla corrente.
“Circa 4mila volontari hanno preso parte allo sforzo di pulizia, dopo essere stati formati attraverso il sistema che abbiamo istituito insieme all’organizzazione no profit EcoOcean. Tutti hanno agito in conformità con le nostre linee guida. Sia il ministero che altri enti coinvolti hanno invitato i volontari ad agire esclusivamente in coordinamento con noi in tre modi: attraverso le autorità locali, attraverso l’Autorità per la natura e i parchi, o attraverso l’EcoOcean – in collaborazione con il MoEP. So che tutti vogliono aiutare, ma il catrame è una sostanza pericolosa!”, ha dichiarato la ministra per per la Protezione dell’Ambiente, Gila Gamliel. Nelle operazioni di salvataggio delle coste sono impegnati migliaia di volontari e moltissimi militari attivati nel soccorrere gli animali spiaggiati; nei giorni scorsi, anche una balenottera comune lunga 17 metri si è spiaggiata morta con, al suo interno, un “liquido nero derivato dal petrolio”.
Sono in corso indagini per identificare la nave che, stano ai primi rilevamenti satellitari, viaggiava in acque internazionali. La ministra Gila Gamliel ha parlato di nove navi tra quelle potenzialmente responsabili, ma ha dichiarato che il proprio paese non avrebbe potuto in alcun modo prevedere quanto è accaduto.
La situazione appare critica: parte del catrame potrebbe essere penetrato sotto gli scogli, danneggiando l’ecosistema. Si tratta di un problema particolarmente grave per Israele. Solo pochi giorni fa, il governo aveva annunciato la riapertura di hotel e stabilimenti turistici, dopo mesi di chiusura a causa della pandemia. Dopo l’accaduto è stato necessario dichiarare il divieto di balneazione, di praticare sport marittimi e di campeggiare sui 170 km di litorale coinvolti. Dal confine a nord col Libano fino a sud con la striscia di Gaza è stato posto anche il divieto di attività sportiva e accampamento. Ma non basta: in Israele, circa il 55% dell’acqua potabile proviene dagli impianti di desalinizzazione.
Quello che si è verificato nei giorni scorsi è solo l’ultimo caso di problema legato al petrolio nel Mar Mediterraneo. E i rischi non sono legati solo alle petroliere: provengono anche dall’estrazione e dal trasporto via mare del petrolio. Solo poche settimane fa, il 5 dicembre 2020, nel Mar Adriatico è affondata la piattaforma Ivana D. La piattaforma, improvvisamente scomparsa presumibilmente divelta dal forte vento, è stata ritrovata pochi giorni dopo a poco più di 40 metri di profondità.
Ad agosto la Turchia ha già riaperto le trivellazioni nel Mar Mediterraneo orientale. E in Italia, il governo Draghi non ha ancora preso una posizione chiara: il decreto Mille proroghe ha solo rimandato a settembre la scadenza. Ma senza un divieto, a breve potrebbero riprendere le trivellazioni petrolifere anche nel mare cristallino intorno alla Sicilia.
La realtà è che oggi il Mar Mediterraneo è il mare più inquinato del mondo a causa del petrolio. I dati riportati da Legambiente parlano di 38 milligrammi di idrocarburi per metro cubo d’acqua.