
di Giuseppe Gagliano –
Tra le pieghe di un Medio Oriente sempre più vicino al punto di rottura, le indiscrezioni filtrate da Washington alla CNN non lasciano spazio a dubbi: Israele starebbe preparando un attacco contro le strutture nucleari iraniane. Un’operazione di vasta portata, forse imminente, che non sorprende nessuno. Soprattutto non sorprende chi osserva da tempo la parabola dell’attuale governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, ormai sempre più determinato a spingere il Paese verso una militarizzazione totale dei rapporti internazionali, pur di salvarsi politicamente sul piano interno.
Israele oggi non è una potenza stabile. È un Paese lacerato da un conflitto intestino tra democrazia costituzionale e derive autoritarie, segnato da riforme giudiziarie contestate, proteste di massa e spaccature profonde all’interno dell’establishment militare e della società civile. In questo contesto, il governo Netanyahu, sostenuto da una fragile e radicalizzata coalizione, ha scelto una strategia tanto vecchia quanto pericolosa: esportare all’esterno le proprie fratture interne. Alimentare la tensione regionale, spingere per un confronto con l’Iran, brandire il dossier nucleare come pretesto per riaffermare la propria centralità.
Ma questa volta il gioco rischia di saltare. Perché il prezzo da pagare non sarà solo il solito round di raid mirati e rappresaglie. Questa volta, come confermano le fonti americane, si profila una vera e propria operazione bellica su larga scala. Un’azione che trascinerebbe l’intero scacchiere mediorientale, già incendiato dal collasso siriano, dalla crisi libanese e dalla guerra permanente a Gaza, in una nuova fase di destabilizzazione sistemica. E, peggio ancora, in un confronto diretto tra potenze.
Sul versante americano il presidente Trump, ufficialmente, continua a credere in un “accordo negoziato” con Teheran. Ma i fatti, come sempre, raccontano altro. Washington non ha mai smesso di considerare l’opzione militare sul tavolo. Ha anzi lasciato circolare indiscrezioni, imposto scadenze irrealistiche, e alimentato la percezione – tanto a Teheran quanto a Tel Aviv – che il negoziato sia un paravento.
Il problema è che la finestra di opportunità che Israele intravede, un Iran indebolito economicamente, isolato diplomaticamente e vulnerabile militarmente, potrebbe essere solo un’illusione. I bombardamenti dello scorso ottobre, pur devastanti, non hanno piegato le capacità strategiche iraniane. Né le hanno cancellate. Ma il governo Netanyahu ha bisogno di mostrare forza. Di apparire come l’unico vero garante della sicurezza nazionale. Di farsi carico, ancora una volta, della difesa dell’occidente. E lo fa con l’appoggio silenzioso di un’America che, mentre dichiara di voler trattare, prepara logisticamente ogni possibile escalation.
C’è però un punto cieco in questa strategia. Lo ha ricordato anche il Time: Israele, da solo, non ha la capacità di distruggere in modo definitivo le infrastrutture nucleari iraniane. Non ha né i mezzi per penetrare le strutture più profonde, né le capacità di rifornimento in volo per sostenere un’operazione prolungata. Eppure continua a prepararsi. Non per vincere, ma per colpire. Per dimostrare qualcosa. Per sabotare preventivamente ogni possibile intesa tra Teheran e Washington. Per rendere il conflitto inevitabile, e costringere gli Stati Uniti a schierarsi definitivamente.
La politica estera israeliana sembra sempre più modellata su un principio di guerra per procura rovesciata: non è più Israele che agisce per conto dell’occidente, ma è l’occidente che viene tirato dentro le guerre di Israele. In nome della sicurezza, della deterrenza, dell’equilibrio regionale. Ma è un equilibrio costruito sulla paura e sulla sfiducia, sulla convinzione che il dialogo non sia più utile, e che l’unico linguaggio parlato nella regione sia quello delle bombe.
E intanto, mentre Tel Aviv minaccia, Teheran replica: l’arricchimento dell’uranio non è negoziabile. Non per sfidare il mondo, ma per evitare di finire come l’Iraq o la Libia. È questo l’effetto della strategia israeliana: rendere legittima, agli occhi dei Paesi più vulnerabili, la corsa al nucleare. Perché solo così si può sperare di fermare una guerra annunciata.
Israele, nel suo tentativo disperato di conservare un primato militare e politico che la storia gli sta lentamente sottraendo, rischia di innescare una guerra che travolgerebbe l’intera regione. Una guerra che nessuno può vincere, ma che può distruggere ogni tentativo di equilibrio. E tutto questo per cosa? Per restare al potere? Per evitare nuove elezioni? Per distogliere l’opinione pubblica dalla crisi interna?
Le guerre globali non nascono solo per interessi geopolitici. A volte bastano motivazioni molto più piccole. E molto più pericolose.