
di Giuseppe Gagliano –
Il rifiuto del ministro dell’Energia israeliano Eli Cohen di firmare l’accordo sul gas da 35 miliardi di dollari con l’Egitto non è soltanto una questione economica: è un gesto politico che mette in tensione la triangolazione strategica tra Israele, Il Cairo e Washington. L’annullamento della visita del segretario all’Energia statunitense Chris Wright, ufficialmente per “motivi tecnici”, è in realtà un segnale di irritazione americana. Gli Stati Uniti vedono in quell’accordo una pietra angolare della stabilità regionale e della nuova architettura energetica del Mediterraneo orientale, capace di contenere le influenze russa e iraniana. Ma Israele, dopo due anni di conflitto intermittente con Gaza e tensioni crescenti con l’Iran, intende riaffermare la propria autonomia decisionale.
Dietro l’accordo energetico c’è molto più che la vendita di gas naturale dal giacimento di Leviathan all’Egitto fino al 2040. C’è il tentativo di costruire un asse energetico tra Israele, Egitto e Stati Uniti in grado di controbilanciare l’espansione economica turca e la presenza russa nel Mediterraneo. Cohen, tuttavia, ha rifiutato di firmare finché non saranno “garantiti gli interessi di sicurezza israeliani” e stabilito “un prezzo equo per i cittadini israeliani”. Un linguaggio che riflette la crescente diffidenza verso gli alleati storici e il timore di una perdita di controllo strategico su un settore che oggi rappresenta la spina dorsale della sovranità economica del Paese.
L’accordo avrebbe rafforzato due alleanze cruciali. Per Washington, rappresentava un tassello nel contenimento dell’Iran e nella riduzione della dipendenza europea dall’energia russa. Per Il Cairo, avrebbe permesso di consolidare il suo ruolo di hub energetico regionale, esportando gas naturale liquefatto verso l’Europa e garantendo allo stesso tempo l’approvvigionamento interno. Per Israele, invece, la questione è più complessa. La dipendenza dalle infrastrutture egiziane per l’esportazione del gas limita la sua autonomia strategica, mentre il prezzo concordato potrebbe risultare poco vantaggioso per il mercato interno, aggravando il malcontento sociale in un Paese ancora provato dalla guerra e dall’aumento dei costi energetici.
Gli Stati Uniti premono perché Israele mantenga l’intesa, temendo che il rifiuto di Cohen indebolisca la fiducia internazionale nei piani energetici congiunti e apra spazi a nuovi attori, come la Cina o la Russia, desiderosi di inserirsi nelle infrastrutture mediorientali. L’Egitto, dal canto suo, cerca di presentarsi come mediatore indispensabile non solo nel conflitto di Gaza, ma anche nel campo energetico: senza il suo territorio e i suoi impianti di liquefazione, Israele non può esportare grandi volumi di gas. Tuttavia, l’alleanza resta fragile: Il Cairo teme che Tel Aviv possa preferire rotte alternative attraverso Cipro o la Grecia, mentre Israele diffida del progressivo avvicinamento dell’Egitto alla Russia e ai Paesi del Golfo.
La sospensione dell’accordo non è un incidente isolato: è il sintomo di una crescente competizione per il controllo delle risorse del Mediterraneo orientale. Dalla scoperta dei giacimenti di Tamar, Leviathan e Zohr, la regione è diventata un nodo vitale della sicurezza energetica globale. Ma ogni metro cubo di gas è oggi anche una leva politica. Israele intende usare le proprie riserve come strumento di influenza, non come semplice merce di scambio. Il rischio è che l’energia, anziché unire, diventi un nuovo campo di confronto, dove si incrociano gli interessi americani, le ambizioni egiziane e le paure israeliane.
Dal punto di vista economico, il blocco dell’accordo potrebbe rallentare l’espansione di NewMed Energy e della statunitense Chevron, colpendo la credibilità di Israele come esportatore affidabile. Ma sul piano strategico, Cohen scommette su un principio: meglio un ritardo che una dipendenza. Israele mira a rinegoziare i termini dell’intesa per ottenere una maggiore quota di controllo sui flussi e sui profitti, consapevole che la domanda europea di gas rimarrà alta ancora per almeno un decennio. Allo stesso tempo, il governo Netanyahu deve bilanciare la pressione americana con l’opinione pubblica interna, sempre più sensibile al costo dell’energia e ai rischi di svendita del patrimonio nazionale.
La crisi diplomatica tra Washington, Israele e Il Cairo conferma che la vera battaglia nel Mediterraneo non è solo militare o politica, ma economica. Il gas è diventato la nuova moneta della geopolitica, capace di finanziare alleanze o farle crollare. L’Egitto ha bisogno di energia per evitare il collasso interno; Israele ha bisogno di esportare per sostenere la propria crescita; gli Stati Uniti hanno bisogno di entrambi per mantenere l’influenza nella regione. Ma in questo triangolo di interessi, ogni sospensione, ogni rinvio, ogni prezzo non concordato rischia di innescare nuove fratture.
La decisione di Cohen non è solo una sfida agli Stati Uniti, ma una dichiarazione d’indipendenza energetica che segna un cambio di fase nella politica israeliana. Dopo anni di dipendenza strategica da Washington, Israele tenta di trasformarsi in potenza autonoma, capace di usare le proprie risorse come leva diplomatica. Ma l’autonomia ha un prezzo: il rischio di isolamento. Nel Mediterraneo orientale, dove ogni molecola di gas è anche una promessa di alleanza o un preludio di scontro, il confine tra forza e vulnerabilità resta sottile. Israele lo ha appena varcato.











