
di Giuseppe Gagliano –
Le campagne militari israeliane, spesso al centro di accesi dibattiti internazionali, non possono essere comprese pienamente senza analizzare il contesto economico e finanziario che le sostiengono. Un aspetto cruciale di questo scenario è il ruolo delle grandi società di produzione di armi e dei fondi d’investimento globali che, attraverso il possesso di azioni rilevanti in queste aziende, traggono profitto dall’aumento delle vendite di armamenti, specialmente in contesti di conflitto come quello israelo-palestinese.
Dal 2019 ad oggi Israele ha acquistato armi e sistemi di armamento principalmente da alcune delle maggiori compagnie del settore a livello globale, tra cui le americane Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin e RTX (Raytheon Technologies), la britannica Rolls-Royce e l’italiana Leonardo. Queste società sono tra i principali fornitori di tecnologie militari sofisticate, come caccia F-35, missili avanzati e sistemi di difesa aerea, utilizzati dall’esercito israeliano. Tuttavia dietro queste aziende si cela una struttura finanziaria che merita attenzione: i fondi d’investimento internazionali noti come le “Big Three”: Vanguard, BlackRock e State Street.
Questi tre fondi d’investimento sono tra i maggiori azionisti di rilievo delle principali compagnie di armamenti globali. Ad esempio Vanguard, BlackRock e State Street detengono quote significative in Boeing, Lockheed Martin e RTX, influenzando, seppur indirettamente, la gestione e le strategie di queste aziende. Ciò significa che, in un contesto di accresciute tensioni militari e conflitti, l’aumento delle vendite di armi, come quelle destinate a Israele, genera un incremento del valore delle azioni di queste compagnie, beneficiando i loro azionisti principali.
L’aumento delle spese militari e l’acquisto di armamenti da parte di Israele sono infatti strettamente collegati ai profitti di queste aziende. Lockheed Martin ad esempio ha fornito i caccia F-35 ad Israele, considerati un pilastro delle capacità militari dello Stato. Boeing è responsabile della vendita di velivoli da combattimento e missili, mentre RTX ha fornito avanzati sistemi missilistici e difese aeree. Ogni vendita non solo rafforza l’apparato bellico israeliano, ma genera anche profitti considerevoli per queste aziende e, in ultima analisi, per i loro azionisti, inclusi i fondi d’investimento.
Questo intreccio tra industria della difesa e investitori globali evidenzia un modello economico in cui la produzione e vendita di armi diventa una fonte di guadagno costante per i grandi fondi finanziari. Vanguard, BlackRock e State Street gestiscono trilioni di dollari di asset e detengono partecipazioni significative non solo nelle principali aziende del settore della difesa, ma anche in altre industrie, come quella turistica. In questo senso, un aspetto interessante è il loro coinvolgimento come azionisti in grandi piattaforme di prenotazione online, aziende che sono state criticate per il loro ruolo nell’alimentare l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Secondo numerosi attivisti e ONG tali compagnie facilitano la promozione di alloggi in insediamenti israeliani illegali situati in Cisgiordania, contribuendo così, in modo indiretto, all’occupazione delle terre palestinesi.
Questo legame tra il mondo della finanza globale, l’industria della difesa e altri settori economici mette in luce un circolo vizioso in cui conflitti e occupazioni territoriali diventano opportunità di profitto. Le “Big Three” non sono semplici attori passivi in questo contesto, ma svolgono un ruolo di primo piano nell’alimentare una rete economica che beneficia direttamente dalle tensioni geopolitiche e militari. Mentre la popolazione civile in aree come la Striscia di Gaza e la Cisgiordania continua a soffrire a causa delle operazioni militari e dell’occupazione, le aziende produttrici di armi e i loro principali azionisti vedono aumentare i propri profitti grazie alle vendite crescenti di armamenti.
Dal punto di vista etico ciò solleva importanti interrogativi: è accettabile che i grandi fondi d’investimento continuino a trarre profitti da situazioni di conflitto e occupazione? Mentre la diplomazia internazionale cerca di trovare soluzioni durature per la pace in Medio Oriente, i meccanismi economici e finanziari sembrano incentivare la prosecuzione dei conflitti. L’esistenza di una tale struttura finanziaria suggerisce che, per alcuni attori economici globali, la guerra e le tensioni geopolitiche rappresentano un’opportunità per realizzare guadagni economici significativi.
In conclusione le campagne militari israeliane e il loro sostegno tramite l’acquisto di armi dalle principali aziende della difesa globale sono parte di un più ampio meccanismo economico-finanziario che coinvolge i grandi fondi d’investimento internazionali. Le “Big Three”, Vanguard, BlackRock e State Street, attraverso le loro partecipazioni azionarie, traggono benefici dall’aumento delle vendite di armamenti, mentre contribuiscono indirettamente anche a situazioni di occupazione come quella dei territori palestinesi. Questo complesso intreccio tra economia e conflitti solleva questioni etiche rilevanti su come il potere economico e finanziario globale possa influenzare, e persino incentivare, le dinamiche di guerra e occupazione, evidenziando la necessità di un più ampio dibattito internazionale su come regolare e limitare il ruolo degli attori economici in contesti di conflitto.