Israele. Il dramma dei prigionieri palestinesi

di Giuseppe Gagliano

Mentre l’aviazione israeliana riduce in macerie interi quartieri di Gaza, colpendo più di 670 località in meno di una settimana, un’altra guerra, meno visibile ma non meno crudele, si consuma nelle celle delle prigioni israeliane. È la guerra quotidiana contro il corpo e la dignità dei detenuti palestinesi. Quelli che sopravvivono ai bombardamenti spesso finiscono qui: nelle maglie di una giustizia sommaria, in un universo concentrazionario che sembra uscito dai manuali delle dittature.
La cronaca delle ultime settimane è impietosa. Lanciata a metà maggio, l’offensiva israeliana ha preso di mira postazioni definite “di Hamas”, ma nella realtà ha colpito scuole, ospedali, campi profughi, ambulanze. L’ospedale indonesiano nel nord della Striscia è stato costretto a chiudere dopo giorni di assedio, mentre a Khan Yunis la popolazione riceveva ordini di evacuazione tra le bombe. Gli attacchi aerei hanno provocato centinaia di morti, compresi bambini e personale medico. In parallelo la macchina della repressione giudiziaria si alimenta a pieno regime.
Nelle carceri israeliane infatti si contano migliaia di palestinesi detenuti senza accusa né processo. Secondo i dati forniti dall’organizzazione HaMoked, a fine aprile 2025 oltre 3.300 palestinesi si trovavano in detenzione amministrativa, il doppio rispetto a settembre 2023. Un’impennata che coincide con l’inizio delle ostilità. Coincidenza? Più probabilmente strategia.
Chi entra in prigione spesso non sa nemmeno perché. Le accuse sono segrete, le udienze militari sommarie, la difesa inesistente. Secondo Physicians for Human Rights, i detenuti vivono in condizioni disumane: privazioni di cibo, torture fisiche e psicologiche, malattie non curate, punizioni collettive. Una donna racconta di essere stata rinchiusa per mesi in isolamento senza sapere il motivo. Un uomo, Walid Ahmad, ha trascorso mesi in carcere dopo essere stato prelevato a Gaza con la famiglia: nessun processo, nessuna spiegazione.
È questa l’altra faccia della guerra, quella che non fa rumore nei telegiornali occidentali. Un sistema carcerario che serve non solo a neutralizzare oppositori, ma a spezzare una società. Le violenze carcerarie, pestaggi, insulti, soprusi, sono parte integrante del sistema. “La tortura oggi è pratica normale”, denuncia un ex detenuto. Eppure, per l’Occidente tutto questo sembra un fastidio minore. La Germania, tra i principali fornitori di armi a Israele, ha appena chiesto “una ripresa immediata degli aiuti”. L’Unione Europea ha sospeso il trattato di associazione con Israele, ma senza alcuna pressione concreta.
Nel frattempo a Gaza oltre il 90% della popolazione è a rischio carestia. I convogli umanitari restano bloccati. Le Nazioni Unite parlano di “condizioni catastrofiche”. Israele accusa Hamas di usare ospedali e scuole come scudi umani. Ma chi ha occhi per vedere, riconosce il disegno più ampio: la distruzione sistematica della capacità civile palestinese.
In carcere come sotto le bombe, il principio è lo stesso: rendere i palestinesi invisibili, privi di voce, colpevoli per il solo fatto di esistere. È una guerra che non cerca solo di vincere militarmente, ma di annientare moralmente l’avversario. E nel farlo, trascina con sé quel che resta della credibilità democratica dell’occidente.
Chi oggi chiede una “pausa umanitaria” o una “condanna equilibrata” finge di non vedere che non c’è più nulla di equilibrato in questa guerra. Né nella Striscia di Gaza né nelle prigioni israeliane. Solo il silenzio complice, l’ipocrisia dei potenti e il dolore quotidiano di un popolo schiacciato tra le macerie e le sbarre.