Israele. Il Mossad contrario all’attacco di Doha

di Giuseppe Gagliano

La guerra a Gaza non è solo un conflitto militare. È anche un conflitto politico e istituzionale, che sta scavando solchi profondi tra le diverse anime dello Stato ebraico. L’episodio raccontato dal Washington Post, cioè il rifiuto del Mossad di partecipare all’operazione del 9 settembre contro i capi di Hamas riuniti a Doha, illumina queste fratture e ne svela la pericolosità.
David Barnea, capo del Mossad, ha giudicato l’operazione troppo affrettata e, soprattutto, controproducente: eliminare la leadership di Hamas avrebbe messo a rischio la rete di spie israeliane e compromesso il lavoro di intelligence a lungo termine. Barnea preferiva la linea di Eyal Zamir, capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF): circondare le aree urbane di Gaza, sfruttare la superiorità aerea e logorare Hamas fino a costringerlo ad accettare la proposta americana di cessate il fuoco in cambio di un rilascio massiccio di ostaggi.
Era, insomma, un approccio di contenimento e pressione, meno spettacolare ma più coerente con una strategia di lungo periodo. Netanyahu ha scelto diversamente: ha ordinato l’ingresso a Città di Gaza e un’operazione in territorio qatarino, mostrando che la priorità non era la prudenza strategica ma il colpo d’effetto.
L’operazione a Doha è stata condotta non dal Mossad ma dallo Shin Bet, i servizi di sicurezza interna, oggi guidati da David Zini. La nomina di Zini è di per sé un segnale politico: vicino a Netanyahu e ai sionisti religiosi, è noto per la sua visione messianica e per considerare i palestinesi un “nemico divino”. Non a caso la sua ascesa ha spaccato lo Shin Bet, portando alle dimissioni forzate di Ronen Bar, che stava indagando sui flussi di denaro destinati ad Hamas provenienti dal Qatar.
La vicenda ha persino richiesto l’intervento della Corte Suprema, che ha denunciato il conflitto d’interessi. L’accordo raggiunto è stato un compromesso fragile: Bar non è stato formalmente licenziato ma si è dimesso; Zini ha ottenuto la direzione dello Shin Bet, ma un dipartimento autonomo del servizio ha mantenuto l’incarico di indagare sul premier. In questo modo, lo Shin Bet è stato di fatto diviso in due: una componente fedele a Netanyahu e una indipendente, vicina agli apparati che temono derive autoritarie.
La frattura tra Mossad, Shin Bet, esercito e governo è molto più di un dissenso operativo: è il segnale che la coesione dello Stato israeliano è sotto pressione. Netanyahu, per consolidare il proprio potere, si è progressivamente circondato di figure ideologiche e ha tentato di piegare le istituzioni, compresa la giustizia, al proprio disegno politico. Questa strategia può produrre un effetto immediato di unità nazionale, utile in guerra, ma rischia di far esplodere lo scontro interno una volta cessate le ostilità.
Finché il conflitto con Hamas resta in corso, è improbabile che queste tensioni degenerino in crisi aperta: l’opinione pubblica israeliana tende a ricompattarsi sotto attacco. Ma quando le armi taceranno, Israele potrebbe entrare in una fase di turbolenze istituzionali: esercito, intelligence esterna, Corte Suprema e media laici potrebbero allearsi per contenere l’agenda di Netanyahu e dei suoi alleati religiosi.
Il rischio non è solo politico ma strategico: una guerra intestina ai vertici della sicurezza israeliana indebolirebbe la deterrenza del Paese proprio mentre si troverà a gestire un dopoguerra difficile, la ricostruzione di Gaza, la gestione dei prigionieri e la sfida diplomatica con Qatar, Egitto e Stati Uniti.
La vicenda israeliana è un monito per tutte le democrazie in guerra: la forza militare non basta se non è sostenuta da una visione condivisa. Spaccare i servizi di sicurezza per ragioni politiche è un rischio che può costare caro. Israele resta una potenza regionale con capacità tecnologiche e militari di prim’ordine, ma la sua vulnerabilità più grave oggi non è a Gaza, bensì a Gerusalemme: nella frattura tra chi vuole uno Stato ebraico laico e chi sogna un progetto messianico.