Israele sfida l’Iran e il mondo arabo

di Giovanni Caruselli

L’omicidio mirato di Ismail Haniyeh posto in atto dai vertici di Tel Aviv è un’azione di estrema gravità per più di una ragione. Innanzitutto Israele ha teleguidato un missile in territorio iraniano e sulla stessa capitale del Paese, e ciò costituisce palesemente un atto di guerra. In secondo luogo l’omicidio è stato compiuto durante le trattative che dovevano porre fine al dramma di Gaza, trattative condotte dallo stesso Haniyeh. La Casa Bianca, per bocca del segretario di Stato Blinken, ha reso noto alla stampa internazionale che l’azione è stata compiuta all’insaputa dei vertici Usa. È noto a tutti che Israele mai potrebbe resistere a un attacco coordinato del mondo arabo senza il massiccio appoggio difensivo degli Stati Uniti. Ed è altrettanto evidente che in questo momento le forze armate statunitensi sono duramente impegnate nel presidio del Mar Cinese Meridionale per l’espansionismo cinese, nonché nei massicci rifornimenti all’Ucraina per la guerra con la Russia. Negli Usa i prossimi tre mesi saranno inoltre incandescenti per il duro scontro già partito fra repubblicani e democratici per la presidenza, scontro che renderebbe difficile per chiunque governare una crisi internazionale.
Date tali circostanze risulta piuttosto arduo comprendere i reali obiettivi del governo israeliano. L’uccisione di un comandante militare o di un capo politico in quella parte del mondo arabo e iraniano, schierato decisamente con la causa palestinese, non ha mai portato a trattative di pace, semmai ad alimentare l’odio antisemita, se pure ce ne fosse bisogno. Hamas non è certo un’organizzazione che subisce intimidazioni psicologiche, dal momento che il movente dei suoi militanti è una forma di fanatismo religioso, in cui il martirio costituisce la più ambita testimonianza della propria fede.
Secondo fonti sanitarie, la guerra di Gaza fino a oggi ha causato 40mila morti palestinesi, di cui un terzo bambini. L’isolamento internazionale del capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu, obbiettivo della Corte penale internazionale che lo accusa di genocidio, non potrebbe essere più pericoloso e l’occidente a guida Usa dà l’impressione di non essere più in grado di assicurare il controllo di tutto ciò che avviene in ogni punto del globo.
Non si può neanche dire che Netanyahu stia guidando un Paese che ne condivide compattamente le scelte, stanco della guerra, minacciato da arruolamenti fino ad oggi inediti e in attesa di un piano di pace di cui il premier probabilmente non dispone. Il ministro Benny Gantz, che dirigeva il gabinetto di guerra, ha abbandonato la coalizione di unità nazionale creata per fronteggiare il conflitto. Gli ultraortodossi insieme all’estrema destra della Knesset, fanno pressioni per scelte più decise e più chiare, che non prevedano una guerra infinita.
Malgrado le sanzioni dell’Unione Europea e degli Usa, i coloni della Cisgiordania (in 750mila occupano illegalmente i territori dei palestinesi) aggrediscono i residenti palestinesi, approfittando della debolezza del governo e tutto ciò appare come una sfida aperta al mondo arabo. L’Onu ha denunciato 968 attacchi, dieci morti accertati e distruzioni indiscriminate di villaggi. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra viene ormai dichiarata apertamente come un obiettivo esplicito. L’opposizione democratica sembra volere nuove elezioni, ma è evidente quanto durante una campagna militare sia difficile che si scelga questa strada. Accreditati commentatori osservano che probabilmente Netanyahu sta proseguendo la guerra sia perché essa costituisce l’unica giustificazione della sua funzione di guida dl Paese, sia perché il panorama politico israeliano non offre alternative alla coalizione di destra nazionalista e fondamentalista. Il mondo aspetta un intervento deciso da parte degli Usa, che dispone di mezzi determinanti per convincere la leadership israeliana a riportare la pace nella regione.