Johson il borioso

di Dario Rivolta * –

Il nome Boris ha una strana assonanza con l’aggettivo italiano “borioso”, e se pensiamo a Boris Johnson l’accostamento non sembra essere così fuori luogo.
Che l’attuale premier inglese non costituisca il massimo della simpatia è oramai una sensazione molto diffusa tra i sudditi della regina Elisabetta II e ne fa testo la sua popolarità giunta ai punti più bassi per un primo ministro in tutta la storia della “perfida Albione”. La cosa strana è che, contrariamente a quanto succede nel suo Paese, nell’est Europa e tra i baltici cresce l’ammirazione nei suoi confronti.
A ben guardare non ci sarebbe nulla du cui stupirsi: proprio poiché sa benissimo che la sua posizione è fortemente in dubbio sia tra la popolazione britannica sia alla Camera dei comuni, ha scelto di accentuare un atteggiamento molto aggressivo contro la Russia e a favore dell’Ucraina. Il suo viaggio a Kiev per incontrare Zelensky e gli accordi per la difesa militare di Svezia e Finlandia dopo il loro annuncio di voler entrare nella NATO vanno letti in questa chiave. Va da sé che ogni volta che si individua un nemico esterno e si palesa un ipotetico rischio o confronto cruento, anche i più riluttanti connazionali si sentono obbligati a serrare le fila interne e mettere da parte, almeno temporaneamente, le contraddizioni più evidenti.
Ciò detto, nessuno può scommettere che l’ineffabile Boris sia ancora al suo posto nei prossimi sei mesi. La sua impopolarità aveva cominciato a superare ogni statistica negativa precedente quando è venuto a galla che, in barba agli obblighi di lockdown imposti a tutti i cittadini, l’allegro primo ministro e i suoi sodali nel governo si sono incontrati più volte a Downing Street per festicciole amene. Le persone coinvolte in questi party sembrano essere state, pur se non tutte insieme, almeno un centinaio, a guardare la quantità di multe emesse a loro carico dalle forze di polizia. Johnson per quei fatti è diventato l’unico primo ministro britannico ad essere considerato colpevole di un reato. Le accuse che l’opinione pubblica e molti parlamentari gli rivolgono non è solo di aver organizzato quelle festicciole tradendo le stesse regole che imponeva a tutti gli altri, ma soprattutto di aver più volte mentito pubblicamente quando le indiscrezioni hanno cominciato a circolare.
La ragione per cui, nonostante le numerose richieste di dimissioni avanzate dall’opposizione lui è ancora al suo posto, non sta solamente nella necessità di mantenere una qualche stabilità in un momento di crisi internazionale ma anche nel fatto che nel suo stesso partito si fatica a trovare chi sarebbe disposto a prendere il suo posto di leader. Non è infatti un buon momento per i conservatori britannici, che sono accusati di grandi responsabilità per l’aumento dell’inflazione e la forte diminuzione degli standard generali di vita.
Uno dei temi più delicati nel dibattito pubblico odierno è il rapporto con l’Unione Europea. Dalla Brexit in poi si può dire che le cose sono solo peggiorate e il tema di come comportarsi a proposito dell’Irlanda del Nord potrebbe ulteriormente aggravare le tensioni con Bruxelles e il resto del continente.
Cercando di tacitare gli ambienti più conservatori e nazionalisti del suo partito, Johnson ha annunciato di voler rinegoziare drasticamente gli accordi da lui stesso sottoscritti pochi mesi orsono con l’Unione Europea. L’Irlanda del Nord ha circa 500 chilometri di confine con l’Unione Europea (esattamente con la Repubblica d’Irlanda), e quanto stabilito prevede che il Mare d’Irlanda che separa l’isola grande dall’Irlanda stessa sia soggetto a un sistema di controlli doganali per impedire che merci non autorizzate nell’Unione (o soggette a dazi) entrino nei nostri mercati impunemente. È praticamente impossibile che Bruxelles accetti di rinegoziare le condizioni pattuite e Boris ha ipotizzato allora una legge britannica che rimuova quei controlli. Di là da possibili ritorsioni europee che peggiorerebbero le relazioni e porterebbero pesanti conseguenze economiche soprattutto per le aziende britanniche, la posizione del primo ministro è contestata anche nella stessa Irlanda del Nord. Non va dimenticato che nel referendum sulla Brexit quella regione si era espressa con il 56 percento dei voti contro l’uscita e che un recente sondaggio tra gli imprenditori e manager nord-irlandesi ha svelato che il 66 percento di loro giudica neutro o positivo l’accordo in vigore. Tre su quattro lo vorrebbero perfino incrementare, non abolire.
Anche tra gli elettori chiamati poche settimane fa alle urne per il rinnovo del Parlamento locale la percentuale di chi si dichiara per il mantenimento o un ulteriore allargamento dell’attuale sistema è maggioritaria: sui 90 membri eletti solo 37 appartengono al Partito Unionista che vuole eliminare l’accordo, mentre ben 53 appartengono ai partiti favorevoli a mantenerlo. E con buone ragioni: il National Institute for Economic and Social Research ha appurato che da quando la Gran Bretagna è uscita dal mercato europeo comune, l’economia dell’Irlanda del Nord ha fatto di gran lunga molto meglio del resto di tutto il Paese. Precisamente ha specificato che “Il protocollo nord-irlandese e il suo status speciale previsto dagli accordi Brexit favorisce migliori condizioni commerciali e per investimenti in quanto parte del mercato europeo e della relativa unione doganale”.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.