Kenya. Il dramma del landgrabbing

di C. Alessandro Mauceri –

Nonostante sia equiparato a un “crimine contro l’umanità”, il landgrabbing è un argomento di cui non si parla molto. Eppure, secondo una stima di Actionaid del 2018, riguarda ben 1.162 “contratti” per oltre 78 milioni di ettari di terra. Aree fertilissime, zone produttive o ricche di materie prime cedute da capi di stato senza scrupoli a multinazionali o a paesi perché possano risucchiarne via tutto il possibile senza curarsi della sostenibilità o dell’impatto sull’ambiente. E senza curarsi delle persone che vivono in queste regioni. Il grido di dolore delle persone cacciate, violentate, massacrate per accaparrarsi le loro terre troppo spesso rimane inascoltato.
In Kenia le popolazioni che vivono nella regione di Kericho, colorata di un verde abbagliante, sono tra le tante vittime del landgrabbing in Africa. Per decenni, le multinazionali hanno guadagnato milioni e milioni di dollari con il tè prodotto da sterminate piantagioni in una delle aree più floride del continente. Molti abitanti di quelle che vengono chiamate le “White Highland” sono stati “spostati” a forza. I più fortunati, quelli ancora in vita, sono stati “trasferiti” in “riserve autoctone” spesso aride, con poche risorse idriche e dove malattie come la malaria erano endemiche.
A partire dall’ordinanza sulla terra della corona del 1902, si presume che 36mila ettari (90mila acri) di terra a Kericho siano stati strappati (grabbing) ai legittimi proprietari e ceduti agli agricoltori europei.
Questo landgrabbing, iniziato tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, dopo alcuni decenni finì: le aziende decisero che a loro quelle terre non servivano più. Negli anni Sessanta ad alcuni di quelli che erano stati ricollocati in “ambienti ostili non abitabili per gli esseri umani”, venne permesso di tornare a vivere dove erano nati. Ma quelle terre una volta floride e rigogliose, spremute all’inverosimile, ora riuscivano a produrre quanto bastava a mala pena per sopravvivere.
Il ricordo di come era verde questa regione del Kenya è svanito, ma molti sono ancora i sopravvissuti e in molti sono ancora vivi i racconti dei genitori che narravano violenze di ogni genere subite dai conquistatori terrieri moderni. Per questo, con l’aiuto di alcuni avvocati britannici e kenioti, le vittime di landgrabbing e gli eredi delle persone cacciate a forza dalle proprie case hanno presentato una sorta di classaction. I legali hanno chiesto al governo britannico di aprire un’indagine sui presunti crimini, sostenendo che i maltrattamenti subiti dalle popolazioni locali tra il 1895 e il 1963 equivarrebbero a una grave violazione dei diritti umani e hanno denunciato l’accaduto anche al relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione della giustizia, Fabián Salvioli. A marzo, la National Land Commission del Kenya ha stabilito che le popolazioni locali dei Kipsigis e dei Talai hanno effettivamente subito ingiustizie e che la loro terra era stata sequestrata illegalmente.
Per questo i legali delle vittime di landgrabbing e dei loro eredi hanno invitato il Regno Unito a “scusarsi”. Solo a scusarsi. Ma le aziende e il governo di sua maestà si sono guardati bene dal farlo.
Uno dei legali che ha seguito la classaction ha riferito che le compagnie multinazionali del tè non solo non si sono scusate, ma che si sarebbero addirittura rifiutate di avviare colloqui. Lo stesso ha detto il suo collega britannico, Rodney Dixon: “Abbiamo presentato una denuncia al governo del Regno Unito, abbiamo cercato di mediare e abbiamo ottenuto un no completo, anche se in passato sono stati riconosciuti alcuni casi, nessun accordo per sedersi, incontrare le vittime e trovare concreti soluzioni”. La giustificazione addotta dalla controparte è che, in molti casi, dopo tanto tempo è difficile risalire a testimonianze certe sulle lesioni subite dai bambini, sugli stupri subiti dalle donne di queste tribù e sulle violenze. É vero che i testimoni diretti ancora in vita sono ormai pochi, ma in loro i ricordi sono ancora accesi come una ferita ancora aperta. Per lenire almeno in parte questo dolore, queste persone non hanno chiesto altro che delle scuse. Delle semplici scuse. Ma anche queste sono state loro negate.
Negli ultimi anni, in diversi paesi del mondo e in particolare in Africa, i tentativi di perseguire presso i tribunali ingiustizie legate al landgrabbing o a forme di colonialismo estremo sono stati numerosi. E quasi sempre hanno fallito. Solo in un caso, nel 2013, il governo del Regno Unito ha accettato di versare un piccolo risarcimento agli oltre 5.000 kenioti torturati e maltrattati durante la rivolta di Mau Mau, degli anni ’50. Per il resto, si è trattato quasi sempre di una sconfitta per le vittime di landgrabbing e per i loro eredi e di una vittoria per le multinazionali e i governi trincerati dietro la tesi che gli eventi erano avvenuti troppo tempo prima per avere un processo equo (le richieste di risarcimento per lesioni personali dovrebbero essere presentate entro tre anni, a meno che non sia ingiusto rispettare un termine così rigido).
Dal settembre 2016, le conseguenze del landgrabbing a danno delle popolazioni autoctone sono state definite dal Tribunale per Crimini Internazionali dell’Aja analoghe ai “crimini contro l’umanità”. Deportazione forzata e distruzione ambientale, conseguenze naturali del landgrabbing e consuetudine per i business e lo sfruttamento delle risorse nei Paesi sottosviluppati, non possono più essere insabbiate dai tribunali nazionali.
Per questo, visto il rifiuto anche solo a chiedere scusa, gli avvocati britannici e kenioti hanno deciso di fare ricorso alle Nazioni Unite.