Kerry prende le distanze da Israele, ma il gesto sa più di vendetta che di concretezza

di Enrico Oliari

EDITORIALE. E’ ormai guerra di slogan e di parole forti fra Israele e gli Usa, dopo che ieri in un lungo intervento il segretario di Stato John Kerry ha denunciato che “La soluzione di due Stati è in pericolo” e che “nonostante la contrarietà della maggioranza dell’opinione pubblica, lo status quo punta a uno Stato, a una perpetua occupazione”.
Una posizione che tutto sommato rispecchia l’evidenza del continuo espansionismo urbanistico di Israele nei territori palestinesi, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, per cui poco prima di Natale il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha espresso, con la storia astensione di Washington, una chiara seppure non vincolante condanna nei confronti della politica di Benjamin Netanyahu.
Non è inoltre da oggi che il premier israeliano tenta di trasformare Israele in uno stato confessionale, tanto che nel dicembre 2014 il governo era caduto per l’opposizione dei ministri della Giustizia, Tzipi Livni, e delle Finanze, Yair Lapid, alla proposta di legge governativa volta a trasformare la nazione in uno “Stato ebraico”, nonostante la presenza della popolazione autoctona, che è arabo-islamica.
Per Kerry “Se la scelta è uno Stato, Israele non può essere ebraico o democratico; non può essere entrambe le cose e non sarà mai davvero in pace”.
E sulle colonie ha detto che “Le decisioni sugli insediamenti da parte di Israele sono guidate dall’ideologia e non sono correlati alla sicurezza del Paese”, per cui “L’amicizia non significa che gli Stati Uniti devono accettare ogni politica. Gli amici si dicono la dura verità e si rispettano. Gli Stati Uniti hanno votato in linea con i loro valori”.
Per Netanyahu il discorso di Kerry è stato “deludente e prevenuto verso Israele”, anche perché il segretario di Stato “è stato ossessionato dalla vicenda delle colonie e non ha toccato il problema reale, cioè la resistenza palestinese ad uno Stato ebraico in qualsiasi forma”.
E qui ci si è infilato l’ormai prossimo presidente Usa, Donald Trump, il quale ha twittato “Basta trattare Israele con disprezzo, aveva negli Usa un amico, ora non più”.
Netanyahu non poteva sperare di meglio, per quanto coscio del fatto che i presidenti Usa vanno e vengono, ogni 4 anni o al massimo 8. “Sono impaziente di lavorare con Trump”, ha affermato il premier israeliano, che però, probabilmente pensando che il mondo non è fatto solo di Washington e Tel Aviv, ha prudentemente bloccato il voto sulla costruzione di 618 nuove case proprio a Gerusalemme est.
Nei 4 anni di segretariato Kerry ha fatto di tutto per promuovere la soluzione dei Due stati con continui colloqui fra le parti, collezionando tuttavia un fallimento dopo l’altro a causa della linea dura del governo Netanyahu. L’astensione degli Usa al Consiglio di sicurezza dell’Onu è arrivata alla fine del suo mandato e dopo una quarantina di volte in cui gli Usa avevano posto il veto su risoluzioni pressoché identiche: un gesto che sa più di vendetta, che di concretezza.