L’8 e il 9 giugno i cittadini italiani votano per la propria dignità e sicurezza

di Yari Lepre Marrani

Il Referendum dell’8 e 9 giugno 2025 si avvicina e con esso una potenziale svolta non solo nei rapporti tra i cittadini e il lavoro, se il quorum sarà raggiunto, ma nella stessa forza civile dei cittadini stessi verso il potere politico, forza di reazione democratica verso un universo governativo sempre più distante, come dimostra, ad ogni tornata elettorale, il crescente astensionismo, vero protagonista delle ultime elezioni italiane, filo serpeggiante che lega la disillusione e il distacco dalla politica all’anima del popolo italiano. Se l’astensionismo più che un male rappresenta una coerente realtà in Italia, quando entra in gioco la democrazia diretta attraverso l’istituto del referendum e i cittadini possono determinare con il proprio voto un miglioramento delle proprie condizioni di lavoratori, recarsi alle urne diventa doveroso, specialmente quando un referendum concerne determinati diritti dei lavoratori quali l’abolizione dell’attuale quadro normativo il quale favorisce peculiari squilibri nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, contribuendo a rendere più sentita e diffusa la condizione di precarietà del lavoratore e più arduo l’accesso e la conservazione di un impiego stabile e sicuro.
L’8 e il 9 giugno i promotori del referendum chiedono agli italiani di votare Sì’ per rafforzare le tutele normative e giudiziali contro i licenziamenti ingiustificati ma anche per garantire un miglioramento nella sicurezza stessa sul posto di lavoro. Abrogare alcune delle regole introdotte negli ultimi anni, in particolare dal Jobs Act renziano, è ora possibile, permettendo, secondo un’ottimistica visione, di restituire maggiore dignità al lavoro, favorire l’innovazione nelle imprese, garantendo contestualmente un maggiore equilibrio contrattuale. Il referendum vuole invertire una tendenza negativa degli ultimi anni, che ha favorito una minore protezione del mondo del lavoro creando le basi per una realtà professionale più frammentata e meno centrale nelle politiche pubbliche. Un ulteriore risultato del Sì al referendum di giugno sarebbe il ritorno all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla Legge Fornero, con il ritorno alla possibilità di reintegro nel posto di lavoro senza che il lavoratore debba “accontentarsi” soltanto di un risarcimento economico cagionato dal licenziamento.
In materia di lavoro e lavoratori, tutti dicono la propria opinione ma occorre valutare da che pulpito viene la predica. Il consiglio reiterato, da parte dei politici, di disertare le urne l’8 e il 9 giugno, è una conferma di un vizio che, da sempre, attanaglia la classe dirigente quando si parla di coinvolgimento del popolo negli istituti di democrazia diretta. Quest’ultima è sempre vista con occhio diffidente e critico dai politici e non si contano i momenti in cui la classe dirigente, negli ultimi trent’anni, ha invitato i cittadini italiani a disertare le urne dei referendum, come avvenne nel 1991: il 9 giugno di quell’anno(l’ultimo della Prima Repubblica), si votò per il referendum sulla riduzione delle preferenze per l’elezione alla Camera dei Deputati. Il consiglio del politico italiano più potente di allora, Bettino Craxi, è diventato virale: Craxi esortò gli italiani a disertare le urne invitandoli ad andare al mare piuttosto che a votare. Oggi la situazione non è dissimile.
Molte sono le opinioni riguardo la bontà o meno del risultato positivo del referendum del prossimo giugno. Come avviene per ogni tornata elettorale di democrazia diretta, si leggono e si ascoltano le opinioni più controverse. Alcuni datori di lavoro considerano l’ipotesi di licenziamento illegittimo come assolutamente inverosimile perché, sostengono, “nessun imprenditore o datore di lavoro, se ha di fronte un lavoratore capace, efficiente e affidabile, vi rinuncerebbe”, senza che gli stessi facciano i conti con le innumerabili (e comprovate) ipotesi di licenziamenti illegittimi di lavoratori che, seppur capaci, vengono licenziati e cancellati per i motivi più diversi e censurabili. Un esempio illuminante è l’orribile pratica del mobbing ossia quella forma di vessazione e violenza psicologica perpetrate sul lavoratore attraverso umiliazioni, vessazioni e molestie di vario tipo – per lo più psicologiche e atte a ferire la dignità personale e professionale nonché la salute psicofisica del dipendente -, pratica che può essere messa in atto in ambito lavorativo direttamente dalla regia del datore di lavoro o dei colleghi della vittima ma con la complicità del datore di lavoro stesso. Non sono rari i casi di licenziamenti ingiustificati quali ultimi atti di una condotta di mobbing, così che il lavoratore si trova ad essere vittima di una duplice ingiustizia, l’una causale all’altra: l’aggressione psichica del mobbing, con i danni eventualmente prodottisi nell’emotività della vittima, diventa causa diretta, indiretta o controversa del licenziamento ingiustificato del lavoratore che assommerà in sé un doppio male e dovrà far fronte ad un disagio socioeconomico che solo in parte è compreso e intuito da coloro che non hanno avuto la sventura di subire una tale sorte.
Di fronte a tutti i comportamenti, singolari o molteplici, di ingiustizia nei confronti del lavoratore, raggiungere una maggiore forza del lavoratore stesso nei confronti del datore di lavoro è in primis un dovere civico che il cittadino può raggiungere attraverso il referendum in oggetto, per bilanciare le forze in gioco e assicurare al mondo del lavoro dove, spesso, l’ambizione anticipa il sopruso e l’invidia anticipa la spietatezza, un orizzonte più sereno e meno precario.
La recente storia della politica italiana ci dimostra come attraverso la democrazia diretta, gli italiani hanno potuto raddrizzare determinate deviazioni della politica governante attraverso la bocciatura di progetti istituzionali di riforma della Costituzione partoriti da leadership politiche più attente al mantenimento dell’interesse del potere che al miglioramento anche economico delle condizioni del paese: lo scrivente si riferisce in ispecie al famoso referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016 che ebbe ad oggetto la cosiddetta riforma costituzionale Renzi-Boschi, diretta a modificare sotto vari profili la seconda parte della Costituzione.
Renzi non aveva voluto abolire tout court il Senato della Repubblica, cosa che avrebbe senz’altro alleggerito i processi legislativi e decisionali con conseguente vantaggio per l’economia del paese, ma organizzò quel c.d. Senato delle autonomie bocciato dai maggiori costituzionalisti, disprezzato dalle maggiori menti pensanti dell’epoca: con il referendum gli italiani non solo impedirono quel dannoso progetto ma determinarono, indirettamente, la caduta del governo Renzi.
In conclusione, non esistono solo referendum buoni o necessariamente atti ad essere apprezzati e coltivati dalla partecipazione popolare ma il referendum dell’8 e 9 giugno rientra sicuramente tra i primi perché i cinque quesiti referendari proposti dal sindacato CGIL vanno a impattare temi di assoluto rilievo nella vita dei lavoratori. Per questo motivo, il referendum in oggetto dovrebbe essere partecipato invece che svalutato, abbracciato invece che disertato dalla maggior parte degli italiani. In un paese come il nostro, dove la distanza psicologica e sociale tra governanti e governati è notevole e in continuo aumento, come comprovato dalla crescita del grande “partito” degli astenuti, la partecipazione attiva agli istituti di democrazia diretta è un’occasione irrinunciabile per conferire al cittadino quel potere politico decisionale che, in tutti gli altri momenti di una legislatura, egli non ha.
In Italia, inoltre, l’istituto del referendum acquista un rilievo simbolico particolare da coltivare proprio per l’assenza, nel nostro paese, di altri apprezzabili istituti di democrazia diretta come il Recall o revoca degli eletti, una procedura con la quale gli elettori possono rimuovere un politico o un altro funzionario pubblico attraverso una votazione diretta, prima che il suo mandato elettorale sia terminato. Il Recall è presente in pochi Stati, alcuni molto rilevanti come gli USA e il Regno Unito, altri geopoliticamente meno importanti, come la Colombia, la Lettonia e Taiwan. L’introduzione in Italia dell’istituto della revoca degli eletti sarebbe auspicabile perché costituirebbe una conquista democratica di incalcolabile valore.