La Brexit di May e il Regno (non più) Unito

di Dario Rivolta *

Alla fine sembrerebbe che un accordo con la Gran Bretagna sia stato raggiunto e dal 29 marzo l’Unione Europea avrà un membro in meno. La scorsa domenica a Bruxelles il Consiglio dei ministri ha approvato la bozza in precedenza concordata e ora toccherà al Parlamento europeo e ai parlamenti di ogni Stato ratificarla. Non dovrebbero esserci problemi per gli altri 27, ma il problema più grande sarà proprio a Londra, dove la sua approvazione è tutt’altro che garantita.
In ogni democrazia spesso si scontrano punti di vista diversi e a volte opposti tra loro, ma la crisi che sta attraversando il governo della signora Theresa May va ben oltre il normale rapporto dialettico tra forze discordanti. Il fattore detonante di questa situazione è stato l’esito del referendum sull’uscita dall’Unione Europea e soprattutto il presente accordo (di 585 pagine). La May ha già faticato a farlo approvare dal suo governo e prima di Natale dovrà affrontare il voto della Camera dei Comuni. Appena concordata la bozza, si è trovata di fronte alle dimissioni di due ministri e un sottosegretario che hanno manifestato così il loro totale dissenso. Durante la successiva discussione nel Gabinetto si sa che il responsabile del Commercio estero Liam Fox, il ministro degli Esteri Jeremy Hunt, il responsabile per la Brexit Dominic Raab, quello degli Interni Sayid Javid e il capogruppo conservatore alla Camera dei Comuni si sono espressi in modo contrario. Il voto è finito 18 a 11 e il documento è stato approvato con il pressante invito a ridiscuterne alcuni punti. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha immediatamente fatto sapere che non sarebbe andata all’incontro per rinegoziare alcunché, ma soltanto per firmare quanto già discusso e concordato e così è stato.
Per il voto parlamentare sarà ancora peggio. Il partito Conservatore è totalmente spaccato tra “hard brexiters”, sostenitori di una linea di distacco duro e definitivo dall’Ue, e chi invece approva quanto sottoscritto dalla May. I laburisti sono altrettanto divisi: il loro leader, Jeremy Corbin, ha dichiarato che il referendum va applicato in toto ma la maggioranza dei delegati del suo partito, nel congresso di settembre aveva votato una mozione che si dichiarava aperta a ogni opzione, compresa quella di “una nuova consultazione popolare”. Il partito DUP, quello dei duri filo-Londra nord irlandesi, è dichiaratamente contrario alla bozza di accordo e occorre ricordare che i suoi dieci parlamentari sono indispensabili per garantire la maggioranza al Governo May. Favorevoli invece a un nuovo referendum si sono espressi con varie gradazioni il Parlamento scozzese, i partiti nord irlandesi alternativi al DUP, Jo Johnson (fratello dello “scapestrato” Boris che punta a prendere il posto della primo ministro) e ben settecentomila manifestanti che hanno sfilato a Londra lo scorso 20 ottobre.
I motivi del contendere si focalizzano in particolare su due punti: la questione dell’Irlanda del Nord e il fatto che l’accordo raggiunto manterrà in sostanza quasi tutto come prima della Brexit, almeno fino al dicembre 2020. Dopo quella data le cose potrebbero cambiare ma solo in base a un nuovo accordo commerciale che potrà, allora sì, reintrodurre tutte le barriere scomparse con l’ingresso della Gran Bretagna nell’Unione. Lo stesso varrà per la circolazione delle persone e per le sentenze della Corte di Giustizia europea.
La questione nord irlandese è particolarmente delicata perché fu grazie all’appartenere all’Unione sia la parte britannica (Ulster, con capitale Belfast) sia l’Eire (con capitale Dublino), che l’accordo detto del “Venerdì Santo”, pose fine ai lunghi anni di conflitti violenti e di attentati che avevano messo a ferro e fuoco la parte nord dell’isola. Da allora, tra i due Paesi esiste la libera circolazione di merci e di persone e non c’è più alcuna fisica barriera doganale. I commerci tra le due parti sono costanti e ognuno è libero di lavorare dove meglio crede.
L’intesa raggiunta recita che dal 29 marzo 2019 sarà possibile creare alcuni posti di blocco a quella frontiera ma che fino al primo gennaio 2021 gli scambi continueranno a essere liberi. E’ evidente che questa soluzione, forse l’unica per evitare che si ritorni allo scontro tra “cattolici” e “protestanti” a Belfast, costituisce un vulnus alla reale indipendenza commerciale di tutto il Regno Unito poiché, o si costituirà una dogana sulla costa inglese, o le merci che arriveranno liberamente nell’Irlanda del Nord potranno passare lo stretto braccio di mare e disperdersi anche nel resto del Regno. Va da sé che, in caso di dogana tra l’Ulster e l’isola maggiore, le aspettative “unioniste” di Dublino ne usciranno incoraggiate. E’ anche per questo incubo che il DUB ne ha fatta una questione di vita o di morte fregandosene del fatto che nel referendum sulla Brexit i nord irlandesi si espressero con più del sessanta percento a favore del rimanere nell’Unione Europea.
La soluzione trovata con Bruxelles per l’Irlanda è tuttavia pretesa anche dalla Scozia e dal Galles che, in mancanza di soddisfazione data a questo loro desiderio, hanno annunciato di votare contro l’accordo e lanciare un nuovo referendum locale per l’indipendenza.
I motivi conflittuali, di cui abbiamo elencato solo una parte, non riguardano però soltanto gli equilibri interni al Regno (non più?) Unito. Toccano anche la possibilità che il Parlamento spagnolo possa mettersi di traverso. La realtà è che anche Gibilterra si trova in una situazione simile a quella irlandese e il primo ministro spagnolo Sanchez ha ricordato che Madrid non ha mai accettato che la Rocca (dagli spagnoli detta Penon) non sia sotto la propria sovranità. In effetti, considerata la sua posizione strategica sullo stretto tra il Mediterraneo e l’Atlantico, non si capisce perché debba continuare a rimanere britannico un territorio che è tutto geograficamente parte del Continente europeo. Non va dimenticato che quando si votò per la Brexit i cittadini britannici di Gibilterra votarono a larghissima maggioranza per il “remain”. Sanchez ha ottenuto che la Spagna debba essere consultata su ogni decisione di Londra che riguardi Gibilterra, ma questo non risolve per nulla la questione della sovranità. Va poi aggiunto che, se l’Europa vuole essere veramente un’Unione, la questione di Gibilterra “straniera” non può essere soltanto un contenzioso tra Londra e Madrid ma riguarda tutti noi.
Qualunque esito esca dal voto alla Camera dei Comuni, la stessa Gran Bretagna non sarà più la stessa e probabilmente subirà qualche “exit” come quello che ha voluto essa fare con Bruxelles.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.