La Brexit e la classe politica europea

di Giovanni Ciprotti

Il 12 aprile 1861 l’attacco delle truppe confederate a Fort Sumter dava inizio alla guerra di secessione americana, destinata a durare quattro lunghissimi anni. Una guerra che secondo alcune stime causò la morte di quasi 700mila persone, di cui più di 600mila tra i soldati, senza tener conto del mezzo milione di feriti. Una cifra enorme, se si considera che durante la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti, che combatterono per quattro anni praticamente su tutti i fronti, ebbero poco più di 400mila vittime, quasi esclusivamente militari.
Una guerra, quella che lacerò il paese dal 1861 al 1865, scoppiata per un intreccio di motivazioni economiche e di principio, molte delle quali ruotavano attorno alla questione della schiavitù. La “peculiare istituzione”, come usavano definirla negli stati del Sud.
Per decenni, prima di quel tragico 12 aprile, le forze politiche e la pubblica opinione americana si erano aspramente confrontate per difendere o al contrario tentare di rimuovere quella istituzione, condannata da molti in quanto amorale, strenuamente difesa al Sud perché espressione di uno stile di vita consolidato.
Nello scontro non incidevano soltanto gli aspetti etici della questione, benché su di essi si concentrassero gran parte dei discorsi retorici dei leader politici, ma anche i risvolti economici legati al meccanismo della schiavitù, la rimozione della quale avrebbe reso difficilmente sostenibile il sistema economico degli Stati sudisti.
In un paio di occasioni i partiti politici erano giunti a compromessi che non risolvevano il problema, ma ne rimandavano la soluzione ad un futuro indefinito. Gradualmente, negli Stati ove vigeva la schiavitù, si cominciò a parlare apertamente di secessione. Quando, nel marzo 1861, alla Presidenza degli Stati Uniti giunse il repubblicano Abraham Lincoln, la situazione precipitò, malgrado il nuovo Presidente avesse dichiarato nel suo discorso inaugurale di non avere “alcuna intenzione di interferire, né direttamente né indirettamente, nell’istituzione della schiavitù in quegli Stati ove essa esiste”.
L’Unione Europea sta attraversando da molti anni una crisi di identità che la espone al rischio di disintegrazione, per riecheggiare il titolo di un libro pubblicato qualche anno fa dal politologo polacco Jan Zielonka.
L’Europa non rischia certo una guerra civile, ma probabilmente un processo di lenta consunzione, alimentato sia dal malcontento dei cittadini europei che la vorrebbero più coesa e incisiva sia da chi l’ha sempre considerata una sorta di matrigna cattiva e ne desidererebbe la sparizione.
L’intenzione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione Europea, confermata dal referendum del 23 giugno 2016, la successiva fase di negoziazione tra Bruxelles e Londra per definire i termini del “divorzio” e la più recente bocciatura dell’accordo da parte del Parlamento britannico ha portato ad una situazione di stallo e ad una temporanea via d’uscita a dir poco ambigua.
L’incapacità di Theresa May nel superare i veti del suo legislativo e l’inazione delle istituzioni europee competenti per la gestione della Brexit – in primis la Commissione europea guidata da Jean-Claude Juncker – hanno partorito una soluzione che potremmo definire bizzarra, se non fosse per i frutti avvelenati che porta con sé.
A meno di colpi di scena, la proroga concessa dall’Unione alla Gran Bretagna avrà come effetto immediato la partecipazione degli elettori d’Oltremanica alle prossime elezioni politiche del 26 maggio per il rinnovo del Parlamento europeo e il conseguente insediamento di 73 europarlamentari britannici nel nuovo legislativo europeo.
C’è il rischio che la questione Brexit distorca l’intera campagna elettorale europea: le forze politiche sinceramente europeiste avranno non poche difficoltà nel far accettare al proprio elettorato di riferimento l’ennesimo trattamento di favore nei confronti della Gran Bretagna; i movimenti populisti e nazionalisti di ciascun paese soffieranno sul fuoco delle rivendicazioni locali sposando pretestuosamente le tesi dei britannici pro-Brexit per guadagnare consenso a livello nazionale.
La Gran Bretagna non ha mai dimostrato una sincera vocazione europeista. In politica estera ha oscillato tra una politica fortemente ancorata all’interesse nazionale e un completo allineamento alle strategie degli Stati Uniti, derivante dalla “special partnership” tra Londra e Washington consolidata nel lungo secondo dopoguerra. Sin dal suo ingresso in quella che una volta era la Comunità Europea, nel 1973, Londra ha preteso – e ottenuto – da Bruxelles esenzioni o deroghe in diversi ambiti per non essere obbligata a sottostare ad alcune delle normative europee vigenti.
Non che sia l’unico Paese europeo a distinguersi dagli altri Paesi membri nel rivendicare la propria autonomia, ma certo è il più rappresentativo in questo senso.
La crisi dell’Unione europea ha innumerevoli cause. Dopo il fallimento del progetto per dare all’Unione una nuova costituzione e l’allargamento ai Paesi dell’Europa centrorientale, le istituzioni sovranazionali europee hanno progressivamente ridotto la propria capacità di governare l’Europa, mentre si è considerevolmente rinforzato il cosiddetto metodo “inter-governativo”.
L’adozione dell’euro ha introdotto un ulteriore elemento di differenziazione tra Paesi dell’Unione che hanno adottato la moneta unica e altri – tra i quali la Gran Bretagna – che hanno deciso di non farlo.
La situazione di stallo venutasi a creare dopo la bocciatura dell’accordo che avrebbe dovuto regolare la Brexit poteva essere l’occasione per Bruxelles per dettare una linea politica chiara sul primo caso di richiesta di uscita dall’Unione da parte di un Paese membro.
Si sarebbero potuti forse gestire meglio i tempi per costringere Londra ad una decisione definitiva senza giungere all’appuntamento elettorale. Oppure al contrario si sarebbe potuto negoziare con il governo May una proroga per ridefinire l’accordo per l’uscita con la volontaria rinuncia da parte di Londra alla partecipazione alle prossime elezioni europee. Oppure …
Invece, come al solito, ha prevalso il partito della “non-decisione”, alimentato dalla volontà di evitare la cosiddetta “hard-Brexit”, ossia l’uscita senza accordo, e dalla flebile speranza che Londra ritorni sui propri passi e annulli la richiesta di uscita. Ma anche se ciò dovesse accadere, Bruxelles ha creato un precedente per le prossime richieste di uscita che dovessero provenire da altri Paesi membri, in molti dei quali stanno soffiando forti venti nazionalisti.
L’ennesima eccezione, l’ennesimo compromesso al ribasso pur di non decidere. Proprio come gli Stati Uniti dell’Ottocento nei confronti della schiavitù: hanno rimandato più volte, hanno “non-deciso” più volte … e poi si sono sparati l’un l’altro.