La catastrofe Yemenita tra interessi geostrategici ed economici

di Daniele Garofalo

Il conflitto yemenita, dopo tre anni, ha portato alla morte di migliaia di civili e una vasta epidemia di colera. Una catastrofe umanitaria divenuta l’ennesimo caso di proxy war, la “guerra per procura”, fra i principali antagonisti regionali in Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita, e gli attori internazionali loro alleati.
Le rivolte delle “primavere arabe” del 2011 hanno portato all’ascesa militare del movimento anti-governativo sciita zaydita Anhar Allah, “i Partigiani di Dio”, dei Houthi, che il 20 gennaio 2015 con una rivolta assalirono il palazzo presidenziale di Sana’a, costringendo il presidente Hadi, vicino ai sauditi, alle dimissioni. A febbraio 2015 il parlamento fu sciolto e le milizie dei ribelli Houthi presero il controllo del governo e di diverse città yemenite. Il 25 marzo gli Houthi, alleati con forze militari fedeli all’ex presidente Saleh, presero Aden, in cui si era rifugiato il governo di Hadi, costringendo quest’ultimo a fuggire in Arabia Saudita. Il giorno seguente l’Arabia Saudita a guida di una coalizione militare formata anche da Egitto, Marocco, Giordania, Sudan, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain, Senegal, Pakistan e supportata dagli Usa, è intervenuta militarmente contro gli Houthi, del cui sostegno sono accusati Iran, Corea del Nord, Eritrea e gli Hezbollah, lanciando l’operazione “Decisive Storm”, per ripristinare il deposto governo di Hadi. Nel conflitto contro gli Houthi si sono inserite, non solo per motivi di differenza religiosa, anche al-Qaeda, già presente da diversi anni sul territorio yemenita e lo Stato Islamico, per approfittare del vuoto di potere nel paese. L’Arabia Saudita, intervenuta militarmente in Yemen per liberare i territori occupati dagli insorti, è riuscita solo a reinsediare ad Aden il governo di Hadi, fallendo i loro principali obiettivi.

La catastrofe umanitaria.
E’ frequente che i bombardamenti della coalizione non prendano di mira soltanto le postazioni dei Houthi, ma i missili e le bombe a grappolo, di fabbricazione inglese e statunitense, il cui utilizzo è vietato, colpiscono fabbriche, centrali elettriche, ponti, scuole, moschee, ospedali, campi profughi, serbatoi d’acqua e mercati. Il prolungarsi della guerra ha portato il paese sull’orlo della carestia, falcidiato dalle malattie, in particolare da difterite e colera, oltre che al collasso delle reti idriche, fognarie e di gran parte delle infrastrutture. L’embargo, imposto dalla coalizione per evitare l’afflusso di armi ai ribelli, al porto di Hodeidah, ha drasticamente ridotto le importazioni dei generi di prima necessità quali cibo, acqua, medicinali, oltre che di carburante e aiuti umanitari. A oggi la guerra in Yemen ha portato a circa 10 mila morti e 17 mila feriti. 22 milioni di civili richiedono assistenza sanitaria, 2 milioni non hanno accesso all’acqua potabile, 1 milione è gravemente malnutrito e oltre 3 milioni sono sfollati.

Non è solo sunniti vs sciiti ma anche geostrategia.
Anche se all’apparenza il motivo della guerra sembra essere legato solo a fattori confessionali, sunniti contro sciiti, e di sicurezza dei confini, in realtà, la guerra, che i sauditi affermano di combattere per evitare minacce all’islam sunnita e suoi i luoghi sacri, la Mecca e la Medina, è incentrata sul tentativo di scacciare la presenza iraniana nell’area e rompere l’accerchiamento. L’Iran ha portato avanti negli ultimi anni una geniale politica di accerchiamento dell’Arabia Saudita inserendosi in Iraq, Siria e Libano. Il movente della guerra antisciita è utile a Riyad per avere l’appoggio della popolazione sunnita e per motivare la manovalanza militare contro il nemico iraniano. Il fattore religioso però non è altro che un elemento per innescare una guerra che è legata a interessi geostrategici e geoeconomici che riguarda gli attori interessati nella regione mediorientale. L’Arabia Saudita è preoccupata di perdere la sua influenza politica sul mondo arabo musulmano a favore di Teheran, oltre che il suo ruolo nella gestione e nel controllo del mercato delle risorse energetiche. La presenza iraniana nello Yemen minaccia le principali vie di esportazione del petrolio, poiché li porterebbe a controllare, anche lo stretto yemenita di Bab el-Mandeb nel Golfo di Aden. Il checkpoint di Bab el-Mandeb è strategico per l’importante passaggio delle petroliere del Golfo Persico, da cui si stima che in media circa 3,3 milioni di barili di petrolio transitino giornalmente. Lo stesso sostegno militare degli Usa all’aggressione saudita è in linea con i loro interessi nel paese. Ciò per evitare la creazione di un regime filoiraniano che pregiudicherebbe la possibilità di stabilire una base militare sull’isola di Socotra, di appartenenza yemenita, al fine di controllare il traffico navale del petrolio, opponendosi ai tentativi d’intrusione di Cina, Russia e India. Inoltre, il golfo di Aden e lo stretto di Bab al-Mandeb, insieme con quello di Hormuz già sotto controllo dell’Iran, sono tra le principali vie marittime di transito delle navi petroliere. La guerra in atto nello Yemen serve anche quindi a impedire che questi nodi strategici passino sotto il controllo degli iraniani e di conseguenza dei russi.

Gli intessi economici in gioco.
Lo Yemen è uno dei paesi più poveri al mondo e settori primari sono l’agricoltura, l’allevamento e la pesca. I principali prodotti yemeniti sono la canna da zucchero, il tabacco, il cotone e del caffè. L’economia del paese però è sostenuta a oggi principalmente sui proventi dell’industria estrattiva degli idrocarburi, da cui proviene il 70% delle entrate statali. Lo Yemen, anche se con una ridotta capacità estrattiva, ha nel sottosuolo riserve accertate di greggio per 4 miliardi di barili e riserve di gas estraibili per 6,7 milioni di tonnellate annui, oltre che risorse minerarie come rame, piombo, zinco, molibdeno, nichel e oro. I progetti di sviluppo nel paese sono tutti concentrati sull’industria petrolifera e del gas, in cui sono già operativi tre oleodotti, due raffinerie, cinque aree di estrazione, dodici pozzi di produzione, ventisei di esplorazione e undici impianti offshore. Circa trentotto società internazionali hanno fatto richiesta di concessioni per la trivellazione, tra cui l’ENI, che ha ottenuto una licenza esplorativa insieme all’inglese Burren Energy, e l’AGIP che ha investito nel paese insieme agli algerini della Sonatrach. Le principali compagnie già operanti sul territorio yemenita sono la canadese Nexen, la francese Total, la norvegese DNO e i due giganti statunitensi OXY e Hunt Oil CO. Quest’ultima, si è inserita anche nella gestione degli affari legati al gas, tramite la partecipazione nel consorzio Yemen Lng in collaborazione con la Total. L’Hunt Oil CO ha costruito un grosso impianto di liquefazione nel porto industriale di Balhaf, terminale ultimo delle pipeline interne. Da lì, il gas liquefatto viaggia lungo la rotta orientale fino a India e Cina e su quella occidentale verso Europa e America. Balhaf è un punto strategico, poiché da lì è possibile smistare il gas dell’intera Penisola Arabica, aggirando i problemi e gli accordi riguardanti le grandi pipeline mediorientali. Sulla scena si è manifestata da alcuni anni anche l’India. Nel paese, infatti, vivono circa sette milioni d’indiani, impegnati nella sanità, nei trasporti e nelle aziende del comparto energetico. L’India, preoccupata per il prolungarsi della guerra, ha grossi interessi strategici sia in ambito petrolifero, sia commerciale. Nel settore petrolifero vi è la presenza dell’Indian Oil Corporation, che importa sei milioni di barili al giorno, e la Gujarat State Petroleum Corporation che ha acquisito due aree di esplorazione nel deserto di Ramlat al-Sab’atayn.

E’ possibile fermare il conflitto?
I fattori chiave di questa guerra si possono indicare probabilmente in tre cause principali: bloccare la possibile ascesa di una fazione filoiraniana al governo del paese, controllare un Paese povero ma strategicamente fondamentale per il controllo del traffico marittimo e infine la gestione degli investimenti e delle risorse energetiche. Questi fattori conducono al mancato raggiungimento di una soluzione. Oltre alla fine dell’embargo e dell’aggressione e intromissione da parte di attori stranieri, una soluzione può essere quella legata alla riconciliazione di tutte le parti tramite l’elezione di un presidente e di un Parlamento che rappresentino il popolo yemenita e tutte le forze politiche del Paese, l’amnistia per tutte le fazioni partecipanti al conflitto, lo sviluppo di accordi internazionali per la ricostruzione e la gestione delle risorse energetiche, indispensabili per la rinascita del Paese.