La Cina in Europa

di Dario Rivolta * –

Si potrebbe semplicemente trattare di una scelta: visto che l’Europa politica non esiste, preferiamo essere una colonia americana o cinese?
Fino a poco più di trent’anni or sono il dilemma non si poneva. Sembrava che tutto il cammino davanti a noi fosse segnato: l’Europa sarebbe stata sempre più unita e avrebbe riconfermato la sua appartenenza al mondo occidentale, vicina agli USA ma finalmente su un livello di parità. Quel sogno che sembrava scritto nel destino è praticamente svanito nel nulla e sarà già un miracolo se continuerà ad esistere almeno il mercato unico delle merci. Anche l’euro, nato male perché fatto “prima” dell’omogeneizzazione finanziaria, fiscale e soprattutto politica mostra la corda e ci si domanda se, come e quanto tempo potrà sopravvivere.
Nell’insipienza e nell’ immobilismo colpevole delle classi politiche d’Europa altri si sono mossi e hanno, prudentemente e poco per volta, tessuto le loro trame. Più determinati tra tutti i cinesi, abituati per cultura a guardare sull’arco dei secoli e non come da noi con l’occhio alle elezioni del prossimo anno.
Gli investimenti di capitali provenienti dalla Cina in Europa sono passati dai due miliardi di euro nel 2010 ai 35 miliardi del 2016, superando negli ultimi cinque anni quelli americani. Occorre non sottovalutare il fatto che sono quasi sempre soldi non privati bensì decisi e controllati dal governo di Pechino.
I principali oggetti di interesse sono state aziende di media dimensione, ad alta tecnologia e con alta redditività, i marchi del lusso, le proprietà immobiliari e gli strumenti logistici legati direttamente o indirettamente alla distribuzione delle merci. Contemporaneamente i prodotti cinesi hanno invaso i nostri mercati e le bilance commerciali della maggior parte dei Paesi dell’Unione sono diventate fortemente deficitarie. L’Italia ad esempio ha importato nel 2017 per 28,4 miliardi di euro e ha esportato per 13,5 miliardi (fonte Eurostat). La Spagna ha fatto peggio, con un saldo netto deficitario di piu’ di 15 miliardi di euro. Non c’è da stupirsi per questi disavanzi poiché, se è vero che la Cina è il piu’ grande importatore e consumatore di beni e di materie prime, è anche da molto tempo il maggiore esportatore del mondo.
Comunque sia, l’attenzione cinese verso il nostro continente va ben al di là di una sola questione commerciale.
Perché l’¬interesse per l’Europa? Per almeno tre motivi. Primo: la presenza di alta tecnologia a prezzi relativamente bassi per chi ha, come i cinesi, grandi disponibilità di valuta estera. Secondo: è il mercato più ricco del mondo per la ricezione di un’infinità di merci. Terzo: a differenza degli Stati Uniti, non esiste (almeno per ora) un ente pubblico che può bloccare l’acquisto di aziende che potrebbero essere considerate strategiche da parte di soggetti extra europei (solo 15 dei 28 Paesi dell’Ue hanno meccanismi di controllo sugli investimenti stranieri).
L’insieme di questi fattori e la possibilità di negoziare investimenti e logistica con ciascun Paese separatamente consente a Pechino di dettare ogni volta le condizioni per lei più convenienti.
Per capire dimensione e obiettivi della strategia cinese occorre ricordare che il 75% dell’import europeo arriva via mare attraverso i porti del nord ed è una compagnia di quel Paese a detenere il 35% di Euromax, la società che gestisce il porto di Rotterdam, e il 20% del terminal di Anversa. Poiché il transito via Mediterraneo sarebbe più breve, meno caro e darebbe comunque accesso al continente, dal 2009 la COSCO (China Ocean Shipping Company) ha cominciato a fare contratti con il porto greco del Pireo, arrivando nell’agosto 2016 ad acquisirne una quota del 51%. Da allora 3/5 delle merci cinesi che arrivano in Europa passano dal Mediterraneo. La stessa COSCO non si è fermata in Grecia: possiede anche il 51% di Noatum, la società che gestisce i porti di Valenza e di Bilbao sull’Atlantico. Il terminal container di Barcellona, che è totalmente automatizzato e in tutto il mare una volta “nostrum” può ricevere le navi più grandi di ogni altro porto mediterraneo, appartiene già alla società Hutchinson Ports con sede a Hong Kong.
Dall’altra parte del Mediterraneo è cinese anche il terzo (per volumi) porto turco di Kumport, vicinissimo a Istanbul, e non va sottovalutato che la Turchia è un partner economico privilegiato dell’Unione. Sempre da cinesi sono costruiti e finanziati i nuovi porti israeliani di Haifa e Ashdod. Per non lasciare le cose a metà, sono sempre società “mandarine” ad essere i più grandi investitori nella Zona Economica Speciale del canale di Suez mentre, sempre in Egitto, la China Electric Power Equipment and Technology sta tirando 1210 km di cavi elettrici e costruisce una centrale elettrica con potenza di 500KW. Sulla terra ferma europea, oltre ad interessarsi di piccoli Paesi come la Moldavia destinati in futuro a diventare possibili membri dell’Unione o almeno a godere di esenzioni doganali, Pechino sta finanziando, tra l’altro, la nuova autostrada Belgrado-Budapest nei Balcani.
Per quanto riguarda l’Italia, basta ricordare che il nostro è uno dei Paesi ove la bassa crescita e la crescente debolezza dell’economia rendono molto economici e facili le acquisizioni. Fino ad ora gli investimenti cinesi hanno privilegiato Germania e Gran Bretagna mentre Italia e Francia sono rimaste al terzo e quarto posto. Negli ultimi sei anni le cose han cominciato a cambiare. Se nel 2013 erano arrivati poco più di un miliardo di euro e nel 2014 quasi due miliardi e mezzo, nel 2015 sono stati sette miliardi e duecento, per scendere leggermente negli anni successivi. Di fatto la Cina è oggi il decimo investitore nelle aziende italiane quotate in Borsa. A differenza di ciò che succede in Grecia, il sentimento popolare degli italiani verso i cinesi non è particolarmente positivo ma i soldi fanno gola a tutti e la chimera della “Nuova Via della Seta” ha spinto il precedente governo a proporre come punto d’arrivo delle merci cinesi verso l’Europa un consorzio tra cinque porti dell’Adriatico: Venezia (ove sembrerebbe che i cinesi stiano pensando a un porto “galleggiante”), Trieste, Ravenna, Capodistria e Fiume.
Il vero problema di tutte queste azioni cinesi in Europa e nel Mediterraneo è che astutamente la loro presenza non si limita a garantirsi le vie d’accesso ad un mercato particolarmente ricco ma puntano ad acquisire il controllo sulle società di gestione delle infrastrutture cui mirano. Il risultato è di diventare i padroni reali delle loro attività e di poter così decidere man mano, secondo convenienza degli stessi cinesi, quale approdo o via di comunicazione privilegiare anche a scapito delle altre controllate. È facile immaginare il potere di condizionamento che ne deriva sui Governi a causa delle ricadute in termini economici e occupazionali.
Il progetto “Nuova Via della Seta”, cui non a caso le banche statali cinesi hanno garantito crediti per 400 miliardi di dollari, non è un semplice progetto commerciale. È il mezzo attraverso cui Pechino punta a espandere la sua influenza e la sua presenza strategica nell’Asia del Sud, in Medio Oriente e in Europa. Già si sono anche attuate manovre marittime militari tra navigli della flotta della Repubblica Popolare e la Grecia (nel 2015). Manovre della Marina cinese si sono tenute pure nel Mediterraneo dell’est e persino nel Mar Baltico.
È proprio vero che il denaro non ha odore e, forse, tutta l’Europa ha già fatto suo il detto della peggiore Italia, quello che credevamo appartenere solo ad altri tempi: “Franza o Spagna, purché se magna!”.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.