La “Coalizione dei volenterosi” e il difficile percorso di difesa europea

di Giuseppe Lai

Il 25 ottobre scorso si è svolta a Pavia la conferenza internazionale dal titolo “La difesa europea: quali sfide e con quali risorse, cambiamenti tecnologici e nuove prospettive”, organizzata da Aspen Institute Italia con la collaborazione dell’Esercito Italiano. Obbiettivo della conferenza quello di promuovere una riflessione sulla difesa comune, un tema di costante attualità per l’Europa, alla ricerca di un ruolo più incisivo di fronte alle nuove sfide geopolitiche emerse sullo scacchiere internazionale. Tra queste, il secondo mandato di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, artefice di tre mutamenti di rilievo nelle relazioni transatlantiche: l’adozione di una postura conflittuale nei confronti dell’Ue, la messa in discussione del ruolo della Nato e la posizione incerta e non lineare nel sostegno all’Ucraina.
In particolare, l’eventualità di un disimpegno militare e strategico degli Stati Uniti in relazione al conflitto russo-ucraino ha spinto l’Unione Europea ad incentivare l’aumento della spesa militare e a promuovere iniziative bilaterali e multilaterali nel campo della difesa. Tra queste, la “Coalizione dei volenterosi”, un’alleanza di Paesi fondata a Londra il 2 marzo 2025 dal presidente francese Emmanuel Macron e dal premier britannico Keir Starmer, finalizzata a sostenere l’Ucraina e assicurare la protezione dei suoi confini da future aggressioni nel caso in cui il conflitto con la Russia dovesse arrivare ad un cessate-il-fuoco o ad un accordo di pace.
Attualmente hanno deciso di aderire a questa coalizione volontaria circa 30 paesi (sia dell’Ue che Stati terzi come la Norvegia, ma anche l’Australia e il Canada), e prendono parte alle riunioni anche i presidenti del Consiglio europeo, della Commissione europea e il segretario generale della Nato. Gli incontri si sono tenuti con una certa regolarità durante la primavera e l’estate del 2025, sia per fornire un sostegno politico al presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia per definire le modalità di un possibile intervento militare convenzionale a sostegno dell’Ucraina. In termini pratici, i Paesi aderenti mettono a disposizione una forza di peacekeeping, costituita dai loro contingenti militari, con finalità di difesa dei confini ucraini e di deterrenza, per prevenire una nuova aggressione da parte della Russia.
L’idea di tale iniziativa, senza dubbio ammirevole, si scontra tuttavia con una serie di problemi strutturali che minano alla radice la sua finalità. Una prima criticità è costituita dalle limitate capacità militari che la coalizione è in grado di mettere a disposizione. Infatti, nonostante Regno Unito e Francia siano due Paesi dotati di deterrente nucleare, le loro forze armate hanno capacità operative molto ridotte, conseguenza sia della spesa limitata nel settore della difesa sia della natura delle minacce che i loro eserciti sono preparati ad affrontare. Nel periodo successivo alla fine della Guerra Fredda, infatti, i Paesi europei hanno adattato i loro dispositivi militari al fine di operare in contesti a bassa intensità ma non hanno implementato le capacità territoriali, ossia quelle risorse destinate alla difesa del territorio contro attacchi convenzionali o mirate ad impedire l’accesso a una potenza straniera come la Russia. Secondo vari analisti, una forza d’interposizione europea da dispiegare in Ucraina per assicurare la pace richiederebbe, per essere credibile nei confronti della Russia e dunque efficace, non meno di 60-100mila uomini, con supporto aereo e marittimo, il che non appare fattibile allo stato attuale.
Un secondo problema della coalizione dei volenterosi deriva dalla sua organizzazione, che integra un sistema decisionale basato sul coordinamento tra i governi aderenti. Qualunque decisione deve essere frutto di una condivisione intergovernativa, un risultato non semplice da raggiungere. In altri termini, se il potere decisionale spetta a ciascun governo e sulle delibere è richiesta l’unanimità dei Paesi membri, sono necessari lunghi negoziati prima che il consesso intergovernativo riesca a prendere posizione, con il rischio di fare troppo poco o troppo tardi. Ciò si è verificato nella realtà, dal momento che dopo vari mesi di discussione, la coalizione non è ancora riuscita a definire in modo preciso i termini del suo intervento e solo 26 stati su 35 si sono detti disponibili a mettere a disposizione il loro contingente militare. Inoltre, anche se si arriva a una decisione condivisa, in una istituzione intergovernativa non esistono strumenti per costringere i Paesi a rispettare quanto è stato concordato. Da ciò consegue che le decisioni prese in un simile contesto sono intrinsecamente fragili e poco credibili nei confronti di Paesi terzi.
Questo aspetto fa emergere in tutta evidenza il principio della legittimità democratica. Nell’ipotesi dell’invio di truppe della coalizione in Ucraina per assicurare il rispetto dei confini dopo una pace o una tregua, potrebbe rendersi necessario l’uso della forza, il che implicherebbe possibili scontri a fuoco con il nemico e perdite di soldati. Ora, in un governo democraticamente eletto è la politica che delibera l’invio di contingenti militari, assumendosi la responsabilità verso i cittadini-elettori di quello che succede sul campo di battaglia. Questa responsabilità democratica tende ad affievolirsi in un consesso intergovernativo ed ha costituito finora un freno all’invio di truppe militari nel territorio ucraino.
A titolo di esempio, non è scontato per l’Italia accettare che il premier di un altro Paese europeo abbia voce in capitolo sul dispiegamento delle forze armate italiane, dal momento che non è stato votato dagli elettori italiani. Un caso emblematico ha riguardato il presidente francese Macron che, dopo l’annuncio dell’invio di truppe in Ucraina da parte della coalizione, ha ricevuto la ferma risposta del ministro della difesa italiano, il quale ha dichiarato che solo l’Italia decide sul dispiegamento delle proprie truppe. Un segnale netto, interpretabile anche come presa di distanza da possibili tendenze egemoniche da parte di uno dei Paesi guida della coalizione, espressione della volontà di non sottomettersi ad alcuna leadership.
Sulla base di tali considerazioni sarebbe pertanto auspicabile una riflessione su nuove soluzioni giuridico-istituzionali capaci di creare un esercito europeo adeguato alle sfide e al tempo stesso dotato della legittimità politica e costituzionale per operare in tempi di guerra. Su questi presupposti peraltro era fondato il modello della Comunità Europea di Difesa (CED) che univa gli eserciti dei sei Paesi fondatori in un esercito comune, con un unico sistema di comando e controllato da istituzioni sovranazionali democraticamente elette dai cittadini europei. Firmata nel 1952 da Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Olanda, la CED venne ratificata da 4 Stati su 6: Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Mentre l’Italia ritardava il processo di ratifica, nel 1954 la Francia votava a maggioranza una mozione che lo rinviava a data da destinarsi. Nonostante il suo fallimento, i principi che hanno ispirato il modello della CED restano validi anche nell’attuale contesto geopolitico. Ma per dotarsi di un tale strumento, l’Unione Europea deve necessariamente completare il progetto di integrazione politica, accentrando in un governo federale la gestione non solo della difesa e della politica estera ma anche quella dell’economia, adattando ed integrando a tal fine le proprie istituzioni democratiche (Parlamento, Consiglio, Commissione). Operazione certamente non semplice, ma fattibile se fondata su una adeguata volontà politica.