L’intesa promossa da Italia, Francia e Germania punta sulle elezioni del 24 dicembre, senza le ingerenze di Russia e Turchia. Ma il futuro della Libia è tutto da tracciare, e l’Italia chiede un impegno comune dell’Unione Europea per i migranti.
di Maurizio Delli Santi * –
Se nel domino delle numerose crisi e dei conflitti che l’Africa sta vivendo c’è una tessera da cui iniziare a ricomporre la stabilità, questa è di fronte al nostro Mediterraneo: la Libia. La Conferenza appena svoltasi Parigi ha cercato di attenuare le incertezze sul futuro del paese, che vive una fase cruciale di tensioni e divisioni maturate nel contesto già difficile del compromesso conseguito con gli accordi dello scorso anno. La Libia ha necessità di una svolta decisiva dopo il cessate il fuoco cheil 23 ottobre 2020, a Ginevra, la Missione di sostegno delle Nazioni unite in Libia (Unsmil) è riuscita a far sottoscrivere alle parti in conflitto, il governo di Tripoli, allora guidato da Fayez al.Serraj, e l’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, che controlla la parte est del paese.
Ma mentre si avvicinano le elezioni presidenziali e parlamentari volute dalle Nazioni Unite per dare inizio alla vera fase di ricostruzione della Libia, sono sorte varie criticità. Le ultime hanno investito le stesse istituzioni transitorie di Tripoli, il Consiglio presidenziale, retto da Mohamed Al Menfi affiancato da due vicepresidenti, e il Governo guidato da Abdulhamid al-Dbeibah. Il Consiglio presidenziale ha chiesto di estromettere dal governo la ministra degli esteri Najla al Mangoudsh, accusata di non garantire una linea politica aderente agli interessi della Libia per essere troppo vicina ad Haftar, che effettivamente aveva sostenuto durante la sua campagna contro le milizie islamiste nell’est del paese, e di essersi dichiarata favorevole all’estradizione di uno degli attentatori di Lockerbie in una intervista alla Bbc. Ma al-Manoudsh è rimasta al suo posto, sostenuta strenuamente dal premier al-Dbeibah.
Inoltre, risulterebbe ancora incerto l’esito delle querelle sulla questione delle elezioni sollevate dal Parlamento di Tobruk, dall’Alto Consiglio di Stato di Tripoli e dalla Commissione elettorale. Ancora non è chiaro quale valore avrebbe la legge elettorale, varata dai parlamentari, che all’articolo 12 impone ai candidati di lasciare ogni incarico tre mesi prima del voto, previsione che escluderebbe uno dei maggior favoriti, il premier al-Dbeibah. Il Consiglio di Stato insiste invece sulla richiesta di svolgimento di un referendum sulla costituzione prima delle elezioni, mentre la Commissione elettorale ha indicato che le elezioni parlamentari potranno svolgersi solo 52 giorni dopo le presidenziali.
In questi scenari la Conferenza di Parigi ha ricercato innanzitutto un’intesa possibile della comunità internazionale su due punti: la conferma dello svolgimento congiunto delle elezioni presidenziali e parlamentari introno alla data del 24 dicembre e il ritiro dalla Libia delle forze straniere e dei mercenari presenti, condizione ritenuta necessaria anche per garantire la regolarità delle elezioni e che all’esito delle stesse non vi siano tentativi di rivolgimenti. La posizione è stata espressa in maniera netta su twitter da Josep Borrell, l’Alto Rappresentante della Pesc: “Ci sono due chiare priorità per la Libia: le elezioni presidenziali e legislative devono svolgersi come previsto; le sfide alla sicurezza legate al completo ritiro delle forze straniere devono essere risolte”.
Rappresenta dunque senz’altro un punto a favore dell’intesa tra Francia, Italia e Germania l’aver ottenuto a Parigi in primo luogo la partecipazione significativa di una larga rappresentanza internazionale. Oltre ai co-presidenti di Italia, Francia, Germania sono intervenuti per la Libia anche il Presidente del Consiglio presidenziale Al Menfi ed il premier Dbeibah (inseriti su richiesta italiana). Ma vi hanno partecipato anche gli Stati Uniti con la vice presidente Kamala Harris, già in Francia per riprendere i rapporti dopo la crisi dell’Aukus, il ministro degli esteri russo Lavrov e quelli di Cina, Giordania, Svizzera, Algeria e Marocco, nonché vari Capi di Stato e di governo di Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi, Egitto, Grecia, Malta, Cipro, Egitto, Tunisia, Ciad, Niger, Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo. Sono intervenuti anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, l’Alto rappresentante per la Pesc Josep Borrell, il segretario generale della Lega degli Stati Arabi, quello del G5 Sahel, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, e per le Nazione Unite la Vice del segretario Generale Rosemary Di Carlo e l’inviato speciale Jan Kubis. La Turchia è stata rappresentata dal vice ministro degli Esteri, Sedat Onal, atteso che Erdogan aveva insistito per estromettere la Grecia, ma evidentemente era già consapevole di trovarsi in difficoltà con l’annunciata richiesta di ritiro delle truppe filo-turche in Libia, quando stavolta la loro presenza non è più richiesta dal governo libico. Intanto dal fronte opposto, dall’ Esercito nazionale libico di Haftar proprio alla vigila della conferenza è venuto l’annuncio della decisione di far partire 300 combattenti stranieri e mercenari del Gruppo Wagner riconducibili alla Russia. E Macron ha inteso precisare che “anche le forze di Russia e Turchia devono lasciare la Libia”.
Alla Conferenza di Parigi si è dunque riusciti a varare un documento finale in cui si è data indicazione che le elezioni presidenziali e parlamentari “libere”, “credibili” e “inclusive” avranno inizio dal 24 dicembre e si è voluto precisare che “tutti in Libia devono rispettare i risultati elettorali e non ostacolarli”. Il secondo passaggio cruciale è stato raggiunto con un compromesso sulla tempistica del ritiro delle truppe straniere, che in luogo di “immediata” dovrà comunque attuarsi in maniera “rapida”. Un’altra indicazione condivisa sul documento riguarda l’impegno, sollecitato dall’Italia, “ad agire contro tutte le violazioni e gli abusi sui migranti, il traffico di migranti e la tratta di esseri umani o la loro facilitazione”, violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani che “possono essere una base per la designazione di sanzioni mirate del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, compreso il divieto di viaggio e il congelamento dei beni”.
In definitiva, è evidente la preoccupazione del consesso sul rischio che la Libia stia vivendo
una fase estremamente critica in cui era opportuno dare un segnale ai principali attori politici del paese e ai 3 milioni di libici che hanno deciso di iscriversi al voto. È stato dunque lanciato un segnale di attenzione della comunità internazionale che ha interesse ad evitare ulteriori slittamenti delle elezioni per porre un definitivo punto fermo sugli assetti istituzionali della Libia, presupposto per la stabilità del paese. E l’Italia, per voce del premier Draghi, ha inteso sottolineare anche la prospettiva che una volta varato il nuovo assetto parlamentare sarà anche possibile rilanciare l’economia libica, pensando ad una legge di bilancio e al consolidamento della Banca Centrale.
Il co-presidente italiano ha anche colto l’occasione per lanciare l’allarme ai vertici dell’Unione Europea sulla questione della pressione migratoria: “Gli sbarchi continui in Italia rendono la situazione insostenibile, l’Unione Europea deve trovare un accordo su questo fronte”, ha dichiarato Draghi al termine della conferenza. Il tema è noto: secondo una rilevazione dei dati del Ministero degli interni degli ultimi tre anni, degli oltre 103 mila migranti sbarcati sulle coste italiane ne sono stati ridistribuiti negli altri Stati dell’Unione appena 1209, circa l’1,17 %. L’auspicio è dunque che la Conferenza di Parigi possa trainare l’intesa tra Francia, Italia e Germania anche per promuovere iniziative più concrete per un piano dei ricollocamenti in Europa, almeno da parte di un gruppo di volenterosi, come pare si stia iniziando a verificare con alcune aperture alle accoglienze dimostrate oltre che da Parigi e Berlino, anche da Portogallo, Spagna, nonostante i suoi migranti, Irlanda e Lussemburgo.
Ma tornando alla questione centrale delle elezioni libiche affrontata a Parigi, secondo diversi osservatori questa sarebbe tutt’altro che risolta, specie per le divergenze istituzionali di cui si è detto, tra cui soprattutto quelle sollevate dal Parlamento di Tobruk, dall’Alto Consiglio di Stato di Tripoli e dalla Commissione elettorale. Sarà dunque importante verificare su cosa realmente potranno accordarsi i vari attori libici, e soprattutto se il presidente del Consiglio presidenziale Mohamed al-Menfi e il premier Abdulhamid al-Dbeibah saranno realmente d’accordo e riusciranno a fare imporre le decisioni di Parigi.
Ma intanto, in questo quadro di incertezze, non è escluso che sul futuro della Libia potranno aver peso anche la diplomazia parallela e/o l’azione sotterranea dei vari apparati di intelligence e di sicurezza che i vari attori internazionali si accingono a promuovere tra le parti in gioco. In proposito sarà una importante cartina di tornasole verificare chi saranno alla fine i candidati ufficiali alle elezioni e la loro storia. Il governo di Tripoli ovviamente osteggia la candidatura del suo nemico numero uno, il generale Khalifa Haftar, figura di cui si sa ormai abbastanza a partire dall’ “Operazione dignità” che dal 2014 lo ha portato all’attuale leadership su Cirenaica e Fezzan. Ma i suoi trascorsi ancora ricordati dai libici risalgono ai rapporti con Gheddafi, alla comune formazione panarabista e filo-socialista, nonché alla sua appartenenza al ramo salafita dei Madkhaliti, sfruttata da Gheddafi per contrastare l’ascesa dei Fratelli Musulmani. Divenuto eroe popolare della guerra libica nel Ciad, il suo destino si ribalta nel 1987 con la battaglia di Wadi al-Dum, a seguito della quale rimane prigioniero per tre anni. Ma grazie agli Stati Uniti durante la prigionia formò un esercito di circa 2.000 prigionieri libici, la “Forza Haftar”, col compito di rovesciare il regime libico. Rimase in esilio per vent’anni negli Stati Uniti, in Virginia, fino al 2011, quando con le “primavere arabe” si ripresentò in Libia per riproporsi come liberatore della Cirenaica dai gruppi fondamentalisti. I suoi principali sostenitori sono stati Francia, Russia, Emirati Arabi, Egitto e Qatar, ma oggi le posizioni risultano più distanziate dal generale, che pare si stia adoperando per cercare altri appoggi, fra cui quello di Israele, dove avrebbe appena inviato il figlio Samuel per contrattare il sostegno alla sua candidatura in cambio del riconoscimento dello Stato ebraico aderendo agli accordi di Abramo, una volta eletto.
Sul fronte opposto, l’altro illustre candidato Abdul Hamid al-Dbeibah, primo ministro della Libia dal 15 marzo 2021, appartiene ad una delle famiglie più importanti di Misurata, con rilevanti interessi economici formatisi sin dall’era di Gheddafi nei settori commerciale e finanziario e in quello dell’edilizia. Vissuto per diverso tempo in Canada dove si è laureato in ingegneria a Toronto, è tornato nella sua Misurata, dove ha proseguito la carriera imprenditoriale nelle aziende di famiglia, fino a divenire nel 2007 capo della Libyan Investment and Development Company, quindi stretto collaboratore del secondogenito di Gheddafi, Saif Al Islam, ed anche proprietario e presidente della più antica squadra di calcio libica, l’al-Hittad di Tripoli. Emergere come leader non è cosa di poco conto a Misurata, una specie di città-stato molto importante nella nuova Libia, e qui nel 2020 Dbeibah ha fondato il partito Libia Futura, ritenuto vicino alla Fratellanza Musulmana, anche se in realtà risulterebbe su posizioni più moderate. Anche per i suoi interessi economici, non gli sono state risparmiate accuse di corruzione nei confronti di alcuni delegati del Forum di Dialogo Politico che lo ha eletto, e di controversi rapporti economici del suo gruppo finanziario in particolare con la Turchia.
Tra le altre candidature si parla anche di Fathi al-Bashaga, ex ministro dell’interno del governo al-Serraj, che pare abbia effettuato diverse visite negli Stati Uniti e in Europa riuscendo ad ottenere vari consensi, considerato peraltro che nell’incarico precedentemente ricoperto ha certamente avuto un ruolo nella strategia del controllo della pressione migratoria in Europa, seppure con i discussi sistemi della Guardia costiera libica e dei campi di detenzione. Si parla anche dalla candidatura di Khalid Almishri, esponente del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, di orientamento islamista, attuale presidente dell’Alto Consiglio di Stato, ritenuto vicino alla Fratellanza musulmana, da cui però almeno formalmente si sarebbe allontanato. Ma diverse fonti, fra cui il New York Times, hanno fatto riemergere anche la discussa figura di Saif el Islam, il figlio di Gheddafi, che avrebbe lanciato segnali per promuovere una sua candidatura negli ambienti degli ex gheddafiani o delle tribù berbere Qaddadfa. Benchè sia stato raggiunto da una condanna a morte per genocidio da un tribunale libico e colpito da un mandato di cattura della corte penale internazionale, gli stessi appoggi che gli consentono di vivere in una villa nell’ovest del Paese ora potrebbero portarlo a candidarsi alle prossime elezioni.
In conclusione, il bilancio della Conferenza di Parigi segna certamente una fase importante per la convergenza, affatto scontata, della comunità internazionale sul futuro della Libia, ed in questo percorso ha avuto un ruolo determinante l’intesa che è stata conseguita dall’intesa fra Francia, Italia e Germania. Tuttavia, se si guardano gli attuali scenari libici, c’è ancora molto da fare per parlare di stabilità: per i 7 milioni di libici ma anche per l’intero Mediterraneo e la sua sponda europea, il futuro della Libia è tutto da tracciare.
* Membro International Law Association.