La COP 24 già archiviata

di C.Alessandro Mauceri –

Spenti i riflettori sulla COP24, tutto sembra essere tornato alla normalità. E nessuno pare essere più preoccupato per l’ambiente e per le emissioni di CO2. Eppure il segretario generale delle Nazioni Unite era apparso preoccupato come mai: aveva fatto la spola avanti e indietro dalla Polonia per ben tre volte per evitare che i lavori si chiudessero con un nulla di fatto. Addirittura aveva parlato di scelte che erano un “suicidio” per l’umanità.
In tutto questo tempo, i lavori sono durati più del previsto e ben oltre una settimana, come al solito tutti i presenti si sono concentrati sulle promesse, sulle azioni future. Nessuno dei partecipanti (o dei media) si è preso la briga di denunciare qual’è lo stato delle emissioni di CO2 oggi e soprattutto chi ne è responsabile.
La verità è che, al di là delle belle parole che compaiono sempre negli accordi conclusivi delle COP, le emissioni di CO2 continuano ad aumentare con un trend che va avanti (sebbene con alti e bassi) da diversi decenni. E i paesi maggiori responsabili di questa crescita sono sempre gli stessi: Stati Uniti d’America, Cina, India e Russia. La quantità di emissioni di questi quattro “attori” dell’inquinamento globale è incredibile: basti pensare che la Cina, da sola, è responsabile di oltre il 28% delle emissioni di tutto il pianeta. Al secondo posto si piazzano gli USA (15%), seguiti da India (6%) e Russia (5%). I paesi europei, al confronto, sono lontani anni luce: la Germania non va oltre il 2% e Italia, Francia e Regno Unito si attestano ciascuna intorno al 1%. Perfino la Polonia o il Brasile, paesi finiti sotto accusa per aver deciso di tagliare le foreste e di fare ricorso a fonti energetiche ad elevate missioni di CO2 non vanno oltre l’ 1% (dati IEA).
Passando dalle emissioni per paese alle emissioni pro-capite la situazione non cambia molto: unica differenza è che al vertice della classifica si piazzano alcuni paesi arabi come gli EAU (con 25,79 tonnellate pro-capite) e l’Arabia Saudita (con 19,66). Subito dopo di nuovo gli USA (con 16,44) accompagnati da Australia e Canada.
Un aumento delle emissioni di CO2 legato innegabilmente all’aumento della richiesta di energia: l’anidride carbonica aumenterà anche quest’anno, come era aumentata nel 2017. Ovvero proprio il contrario di quello che dovrebbe avvenire se davvero si volesse evitare il rischio di un innalzamento eccessivo delle temperature medie a livello globale, e i danni che ne conseguono. Secondo i ricercatori dell’Università dell’East Anglia, le emissioni mondiali di CO2 da combustibili fossili nel 2018 cresceranno del 2,7%, raggiungendo i 37,1 miliardi di tonnellate. Di conseguenza la concentrazione di CO2 nell’atmosfera salirà a 407 parti per milione (400 ppm era già considerato da molti il punto di non ritorno).
Un risultato non molto differente da quello frutto delle ricerche dell’Agenzia internazionale per l’Energia (IEA), organismo dell’Ocse, che per il 2018 ha detto di aspettarsi “una crescita delle emissioni globali di CO2”, dovuta a “un consumo di energia in aumento e una economia mondiale che si espande del 3,7%”.
Numeri che non lasciano dubbi su ciò che avviene già adesso. E non nel prossimo futuro. Una situazione, tra l’altro, che ha conseguenze immediate non solo sul clima ma anche sulla salute delle persone: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), mantenere gli impegni dell’Accordo di Parigi avrebbe permesso di evitare un milione di morti all’anno in malattie legate all’aumento delle temperature.
Ma non basta. Oltre ai numeri relativi ai valori reali delle emissioni e alle conseguenze sulla salute degli abitanti della terra, c’è un altro aspetto, importantissimo, di cui i politici presenti alle COP e i media non parlano quasi mai: la “compensazione”. Eppure è proprio sulla compensazione che si sono basate le politiche ambientali da oltre un ventennio ad oggi. Se ne parlò anche in occasione del Protocollo di Kyoto, quando apparve impossibile riuscire a far mantenere agli stati le promesse sull’ambiente senza concedere in cambio di poter “compensare” le emissioni di CO2 con qualcos’altro come l’espansione di boschi e foreste. O, cosa ancora peggiore, con la promessa di altri paesi di non emettere le quantità di CO2 che avrebbero potuto.
In realtà da decenni le industrie e i paesi che le ospitano emettono molta più CO2 di quanto potrebbero, “compensando” il danno prodotto sull’ambiente magari piantando qualche ettaro di foresta. Ormai nel mondo esiste un florido mercato questi “diritti” di emettere CO2 o di compensarla. E, come nel caso degli scambi di borsa i prezzi sono definiti dal mercato (in base alla interazione fra la domanda e l’offerta). Una volatilità dei prezzi dei diritti di emissione di CO2. E di decidere se e quante vite salvare o se continuare ad inquinare e ad uccidere sulla base non di considerazioni sociali o etiche o mirali, ma su “una serie di fattori macroeconomici (offerte di acquisto e vendita, assegnazioni a livello europeo ecc.) cui si aggiungono altri elementi di tipo politico, economico ed ambientale” http://www.minambiente.it/pagina/il-mercato-delle-quote-di-co2 . Il tutto regolamentato da apposite norme internazionali: in Europa, la Direttiva 2003/87/CE sull’ Emission Trading Scheme, ETS, ha istituito a livello comunitario un sistema per lo scambio di quote di emissione di CO2, denominate EUA (EU Allowances). Ovvero il permesso di emettere CO2…..
Un mercato così florido che alcune banche ci hanno costruito sopra addirittura dei derivati!
Tutto regolarmente riportato in registri e atti e gestito su piattaforme di scambio di cui nessuno parla mai. Così come nessuno ha parlato dell’accordo siglato a novembre 2017 tra Commissione Ue e Parlamento proprio sugli scambi di emissioni che fissava un tetto (cap) alle emissioni di 11mila centrali e soggetti, ma al tempo stesso, ribadiva la possibilità di scambiare (trade) le quantità (quote) con certe regole. Scambi che avvengono come in borsa (con 1,931 miliardi di quote e un solo obiettivo: la riduzione del 20% di emissioni rispetto ai livelli del 1990).
Tutto questo fino al 2020 (chi pensava che quella data fosse stata fissata sulla base di studi sull’ambiente o sulla crescita dei paesi in via di sviluppo pecca di ingenuità): a partire dal 2021, il fattore pari al 1,74% del quantitativo medio annuo totale di quote rilasciato dagli Stati membri pari a oltre 38 milioni di quote, diventerà del 2,2% annuo, cosa che dovrebbe comportare una riduzione di circa 55 milioni di quote l’anno e di conseguenza una riduzione delle delle emissioni di gas ad effetto serra.
Ma per un mercato che cerca di “controllarsi” ce ne sono altri (e guarda caso proprio quelli maggiori responsabili delle emissioni di CO2) che stanno crescendo a vista d’occhio. La Cina (chi pensava che potesse mantenere la propria produzione industriale e la realizzazione di infrastrutture come la “nuova via della seta” solo con fotovoltaico ed eolico pecca di ingenuità), lungi dall’essere il nuovo paladino dell’ambiente dopo il cambio di rotta degli USA, ha deciso anche lei di sfruttare il mercato della compensazione. Per questo alla fine del 2017 ha lanciato il più grande mercato di utilities sulle emissioni di CO2: oltre tre miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, più del doppio del mercato europeo!
E mentre tutti i media internazionali gongolavano vedendo il discorso della bambina che è intervenuta alla COP24 (una tecnica squallida e ormai vecchia: vi si fece ricorso nel 2011 quando a parlare alle NU venne chiamata Severn Suzuki “la bambina che zittì il mondo per sei minuti”, e poi nel 2013, quando a farlo fu Malala Yousafzai), i maggiori responsabili dell’inquinamento globale continuano ad emettere CO2 e a fare soldi a palate con la “compensazione”, incuranti della vita di milioni di persone che muoiono a causa della qualità dell’aria che respirano.