La crisi energetica in Cina

di Alberto Guidi

La Cina è nella morsa di una crisi energetica. Nelle ultime settimane la crescente scarsità di energia nelle province del nord-est del paese ha fermato la produzione di centinaia di fabbriche, e rischia di ridurre il PIL nazionale del prossimo trimestre di 2 punti percentuali. Goldman Sachs ha stimato che fino al 44% dell’attività industriale cinese è stata colpita dalla carenza di energia, in particolare le industrie dell’acciaio, dell’alluminio e del cemento. Ai cittadini è stato richiesto di limitare l’uso di bollitori e altri elettrodomestici ad alto consumo. Mentre nelle città i semafori vengono spenti, gli ascensori residenziali fermati e i centri commerciali chiusi anzitempo. Come l’Europa, anche la Cina si è fatta trovare impreparata dall’aumento improvviso della domanda globale di materie prime dovuto al rimbalzo economico dalla pandemia. La crisi energetica cinese è però anche legata al processo di de-carbonizzazione in corso, certamente non privo di ostacoli considerando come due terzi dell’elettricità cinese provengono dalla combustione del carbone.
In vista delle Olimpiadi di Pechino del prossimo febbraio, Xi Jinping vuole evitare che l’inquinamento offuschi i cieli della capitale in mondovisione. E intende mantenere l’impegno preso e ribadito a fine 2020 in sede ONU, di tagliare entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo di oltre il 65% rispetto ai livelli del 2005. Tuttavia solo una regione su tre della Cina continentale è in linea con gli obiettivi di riduzione energetica per questo anno. Motivo per cui i funzionari locali, sotto la minaccia di severe punizioni da parte dell’agenzia centrale di pianificazione, hanno optato per una limitazione della produzione di carbone proprio mentre la sua domanda cresceva vertiginosamente. Una situazione ulteriormente aggravata dalle mancate importazioni di carbone dall’Australia, un tempo principale fornitore della Cina, ma ora nel pieno di una guerra commerciale con Pechino.
Il caso cinese non è certo isolato dato l’attuale contesto di crisi energetica che sta assumendo sempre di più i contorni di un problema globale. Il rischio è che questa congiuntura faccia deragliare la ripresa economica e spinga l’inflazione verso livelli inesplorati negli ultimi decenni. I combustibili fossili tornano dunque a essere uno strumento valido per evitare questo scenario, come dimostra l’impennata nei loro prezzi (il greggio ha toccato quota 80 dollari al barile a 3 anni dall’ultima volta). Non certo una buona notizia a un mese dalla COP26.