La geografia della democrazia: i fattori di rischio nell’era della globalizzazione

di Leonardo Altomare

Fotografando la realtà politica e in particolar modo l’assetto istituzionale attraverso il quale si configurano i governi a livello globale ci si può rendere conto sempre più dei rischi che incombono sulla democrazia nonché il dilagare e il rafforzarsi di sistemi antidemocratici. Partecipazione politica, trasparenza dei processi elettorali e tutela delle libertà civili rappresentano soltanto alcuni dei punti cardine di un sistema propriamente democratico. Per avere un quadro più chiaro di cosa si intenda per democrazia è giusto approfondire non solo i punti sopra citati ma analizzare in primis i processi attraverso i quali e per i quali si può parlare di sistema democratico. Il significato classico risalente all’esperienza ateniese appartiene a una storia ormai remota ma nonostante l’evoluzione storica, l’essenza della demokratia costituisce l’architrave, o almeno cosi dovrebbe essere, di tutti quei sistemi che si professano tali. Volendo ipoteticamente fare una scansione dello scacchiere internazionale ci si rende conto che la c.d. Definizione minima (suffragio universale; elezioni libere, competitive, ricorrenti e corrette; più di un partito; diverse, libere e alternative fonti d’informazione) intesa come criterio identificativo nella classificazione di un sistema politico-istituzionale, subisce delle limitazioni o più precisamente delle alterazioni nonché un completo azzeramento. Dai tribunali politicizzati al rifiuto categorico del dissenso; dal consolidamento di poteri autocratici all’oscuramento delle forme di comunicazione; dall’ utilizzo della violenza alla mancanza di qualsiasi forma di libertà di espressione pubblica. Eseguendo una mappatura su vasta scala è possibile individuare un gran numero di Stati coinvolti nei processi pocanzi descritti. Partendo dal continente africano, repressione, violenza e corruzione degli apparati governativi rappresentano i principali impedimenti alla nascita di una cultura democratica se non della stessa democrazia.
E’ il caso della Repubblica Democratica del Congo, che a dispetto del suo nome, ha vissuto per diciotto anni sotto il dominio autoritario di Joseph Kabila, accusato di mantenere il controllo del Paese, nonostante la vittoria elettorale nel 2019 del nuovo presidente, Félix Tshisekedi. Una storia altrettanto turbolenta è quella del Ciad, fatta di colpi di stato e guerre civili che hanno de facto soppresso qualsiasi iniziativa democratica, come le elezioni legislative inizialmente previste nel 2015 e più volte rimandate. L’incapacità del governo centrale segna le sorti della Repubblica Centrafricana, divisa in due territori sotto il controllo di due differenti milizie, a sud ovest gli Anti-Balaka e gli ex-Seleka a nord est.
Realtà analoga la troviamo in Libia, territorialmente divisa tra il governo di al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e il generale Haftar che controlla la parte orientale del Paese. Restando sempre sul territorio africano, non possiamo non menzionare la Guinea Equatoriale con il presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo alla guida del paese dal 1979 all’indomani del golpe che abbatté il regime dello zio, classificando cosi il presidente come il capo di Stato non monarchico al potere da più tempo nel mondo. Relazioni conflittuali con gli Stati vicini, sospetto appoggio a gruppi terroristici e una feroce politica interna repressiva caratterizzano la presidenza di Isaias Afewerki, unico presidente della storia dell’Eritrea, in carica dalla nascita dello Stato nel 1993. Nonostante la fine nel 2019 della lunga dittatura del presidente al-Bashir, la strada verso una compiuta democrazia in Sudan resta una questione delicata che potrebbe risolversi come punto di partenza con la cessione del potere dai militari alla società civile e l’indizione di libere elezioni. I casi citati consentono di individuare specifiche caratteristiche e processi di quello che possiamo definire modello africano in relazione per l’appunto alla mancanza di democrazia e alla difficoltà di realizzazione di sistemi di tale natura.
Il c.d. modello africano si caratterizza anzitutto per l’abolizione del limite di mandato presidenziale. Quest’ultimo nella gran parte dei casi avviene o attraverso il controllo delle corti costituzionali che dovrebbero essere “garanti” o per mezzo dell’interferenza diretta in appositi istituti giuridici, i referendum, in assenza di un ente garante indipendente. Contrariamente ad un assetto democratico in molti casi l’alternanza dell’esecutivo non è una norma ma un‘eccezione. E’ di fondamentale importanza considerare il fatto che la democrazia si basa su uno stato di diritto fondato a sua volta su una carta costituzionale che per essere efficace e duratura deve essere elaborata sulla base di esigenze sociali effettive, senza tempo e dunque lungimirante rispetto alla sua nascita e impersonale. La maggior parte delle costituzioni dei paesi africani nascono all’indomani di un processo di decolonizzazione e possono considerarsi frutto di una mescolanza di costituzioni occidentali forate da interessi personali e legate a tradizioni locali e dove molto spesso la pigrizia intellettuale ha impedito la personalizzazione della carta costituzionale producendone una struttura disarmonica lontana dalla realtà e a essa non applicabile se non del tutto. Al gap esistente tra realtà costituzionale e vita reale, la situazione nei paesi africani che non godono di uno status democratico, si aggiunge senza ombra di dubbio la difficile situazione economica, terreno fertile per fenomeni di corruzione. Quanto detto è strettamente connesso alle pressioni esterne esercitate dalle c.d. superpotenze, che attratte dalle ricchezze del continente cosi come da logiche di strategia geopolitica, nell’ottica del guadagnano e del rafforzamento in termini di politica internazionale, con ingenti investimenti, contrariamente a quanto si pensi, non producono benessere economico, se non di facciata, bensì l’effetto contrario.
A sostegno di quanto detto possiamo citare il caso della Cina che con significativi investimenti, cosi come i prestiti facilitati con linee di credito a tasso zero e i lunghi periodi concessi nel ripagare questi capitali, rendono questi ultimi sempre più appetibili ma traghettano allo stesso tempo il gigante asiatico all’acquisizione del debito verso i soggetti cui eroga finanziamenti, i quali non avendo a disposizione un surplus finanziario o attivo proprio per ripagare i capitali investiti si indebitano sino al punto di non ritorno. Continuando nell’analisi dello scacchiere internazionale e nell’ individuazione di sistemi anti democratici, partendo proprio dall’Africa e spostandoci verso Est, si possono individuare realtà ancor più emblematiche. La Corea del Nord, sotto la guida del leader Kim Jong-un, lo Stato al mondo con le minori garanzie democratiche. In una situazione di profonde carenze democratiche sotto il regime di Bashar al-Assad, la Siria, una terra martoriata da ormai nove anni di guerre civili.
Segue il Turkmenistan con le maggiori limitazioni alle libertà personali nel mondo. Il presidente Gurbanguly Berdymukhamedov in carica dal 2006 nel 2016 ha modificato la costituzione per poter rimanere al potere a vita. Non diversa è la situazione in Tajikistan dove nessuna delle tre elezioni vinte dal presidente Emomali Rahmon in carica dal 1993, sono state giudicata libere ed eque dalla comunità internazionale. Discorrendo sulla mancanza di democrazia in Africa e nel vicino Oriente va sottolineato che spesso molti degli Stati interessati utilizzano come “parvenza liberale” i termini Republica e democratica, basti pensare al sopra citato caso della Repubblica Democratica del Congo cosi come alla Cina, un paese guidato da un partito unico e che si identifica all’art 1 della sua carta costituzionale nel seguente modo: “La Repubblica Popolare Cinese è uno Stato socialista di dittatura democratica popolare”. Restando in tema di democrazia di facciata non si può non includere il Bahrein, dove il sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa ha appoggiato negli ultimi anni una serie di misure volte a reprimere il dissenso e limitare l’associazionismo politico. Non si può certo considerare un Paese democratico l’Iran, nonostante la regolarità delle elezioni per la composizione dell’Assemblea consultiva islamica. I conservatori, sostenitori del leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, controllano tutte le principali leve del potere, sebbene alla presidenza ci sia il moderato Hassan Rouhani. Alla costante violazione dei diritti umani e alle esecuzioni capitali si è aggiunta dal 2018 una pesante crisi economica che ha generato ampie proteste popolari. Come il potente alleato cinese, anche la Repubblica Popolare Democratica del Laos è uno Stato totalitario dove il potere è nelle mani di un unico partito, il Partito Comunista, che è anche l’unico autorizzato dalla legge ad esercitare l’attività politica.
Il recente colpo di stato in Birmania cosi come le fortemente contestate elezioni in Bielorussia del 2020 con la vittoria di Lukashenko, presidente dal 1994 rieletto con l’80%, rappresentano un chiaro segnale alla tesi sostenuta in questa analisi. Al pari di un modello africano nell’individuazione dei sistemi anti democratici, si può parlare dunque anche di un modello asiatico alla luce degli esempi sopra riportati. In Asia non ci sono regimi democratici e laddove presenti funzionano in maniera differente da ciò che è a noi familiare quando si parla di democrazia. Basti pensare al caso della Repubblica di Singapore, città-Stato del sud-est asiatico, situata sull’estrema punta meridionale della penisola malese, che si identifica come un c.d. regime ibrido con regole rigide e pianificate tanto da classificare il paese da un punto di vista istituzionale più precisamente come una tecnocrazia.
Il XXI secolo è stato definito il secolo asiatico proprio per sottolineare la centralità dell’Asia nei processi economici e politici globali. Nasce spontaneo a questo punto chiedersi quale sia la relazione esistente tra democrazia e sviluppo. A partire dal secondo dopoguerra ha trionfato la dottrina economicistica secondo la quale la trasformazione o meglio il passaggio di regimi autocratici in democrazie passa per una crescita di benessere e che il benessere porta automaticamente con se la democrazia. È opportuno affermare che una democrazia senza sistema di mercato è poco vitale ma non è corretto affermarne il contrario. A supporto del fatto che un’economia di mercato può fiorire senza democrazia, basta analizzare il caso Taiwan o ancora più significativo quello della Cina. In questo caso possiamo parlare per l’appunto di dispotismo benevolo, ossia quella condizione nella quale il benessere economico non solo fiorisce in uno scenario non democratico ma che in virtù della sua natura alimenta l’assenza di democrazia.
Gli esempi riportati consentono di affermare con certezza l’esigenza di promuovere processi democratici laddove assenti e salvaguardare sempre più la cultura democratica laddove esistente con l’obbiettivo di rafforzarla idealmente e concretamente nella realtà politica e civile. Per far ciò è di vitale importanza far fronte agli elementi che ad oggi rappresentano l’essenza della c.d. crisi della democrazia, se di crisi si può parlare. Uno dei primi fattori è l’impatto della globalizzazione economica e gli effetti da essa prodotti come abbiamo potuto vedere in particolar modo nel caso della Cina e dell’idea in generale di dispotismo benevolo. Strettamente connessa allo sviluppo economico cosi come alle problematiche di diversa natura a livello mondiale, è la nuova coscienza globale e il bisogno sempre più crescente di certezza che trova difficilmente risposta nella politica tanto che risulta percezione diffusa quella secondo la quale quest’ ultima non abbia soluzioni a questi problemi e che sia quindi connivente o impotente. Da ciò si alimenta la crisi di autorevolezza delle classi dirigenti politiche, tanto da produrre, secondo il sociologo Anthony Giddens, un “paradosso della democrazia mondiale”: la democrazia è in crisi proprio nei paesi in cui è nata. Recarsi sempre meno alle urne, iscriversi sempre meno ai partiti, mancanza di fiducia in ciò che questi ultimi rappresentano nelle aule “democratiche” del potere, delusione diffusa della classe dirigente politica percepita come elites corrotte e indifferenti alle esigenza reali. In sistemi democratici sempre più dominati dall’egemonia di queste elites economico – politiche un’ulteriore minaccia è inoltre rappresentata dai sistemi di informazione globale. L’informazione rende potente chi ne dispone sottraendo potere e libertà a chi viene controllato.