La Palestina dei Territori occupati: due donne tunisine spiegano la solidarietà. Vera.

di Saber Yakoubi, Myriam Frih ed Enrico Oliari –

La situazione di Gaza e della Cisgiordania continua a presentarsi in tutta la sua drammaticità, nonostante le promesse di Israele di una riduzione dello stato di embargo e l’iniziativa di Abu Mazen all’ONU. Nel contempo la Primavera Araba ha scaturito in diverse parti del Nordafrica e del Medio Oriente nuove energie che, per quanto la situazione rimanga in più parti ancora incerta, hanno ispirato nella gente comune la partecipazione alla vita pubblica e nei giovani un attivismo senza precedenti: la sensibilità delle popolazioni arabe nei confronti del popolo palestinese si sta concretizzando in gesti di solidarietà, ritenuti fino ad oggi irrealizzabili.
NotizieGeeopolitiche ha intervistato due donne tunisine che hanno fatto della generosità e del coraggio il loro attivismo, arrivando ad organizzare una delle prime missioni umanitarie del mondo arabo rivolte alla popolazione sofferente di Gaza, in modo del tutto spontaneo e disinteressato.

Sabrine Laribi è una giovane giornalista di 25 anni, tunisina, la quale spiega che “la rivoluzione ha portato entusiasmo, c’è più libertà, quindi possibilità di azione: solo oggi ci siamo potuti muovere, perché durante la dittatura di Ben Alì era impensabile organizzare una spedizione umanitaria verso Gaza”.
Era proibito?
“Non si tratta solo della mera proibizione dovuta al fatto che il dittatore era al soldo delle potenze occidentali e quindi non era concesso alcun tipo di contatto con Hamas, pena l’accusa di terrorismo o di rapporti con il terrorismo. Vi era uno stato culturale di individualismo antisolidale e di consumismo nel quale il regime aveva fatto sprofondare il popolo tunisino, cosa che spingeva i giovani a non trovare interesse per Gaza e per la situazione che affligge la Palestina. Noi abbiamo voluto dimostrare che è possibile arrivare a Gaza e portare una tonnellata di medicinali, raccogliendo le risorse economiche fra gli studenti ed alcune aziende, anche farmaceutiche”.
Di quante persone era composta la vostra spedizione?
“Hanno collaborato diversi amici, ma in 7 abbiamo affrontato il viaggio vero e proprio. In Egitto ci siamo divisi, solo io ed il mio amico Issa siamo passati dal valico di Rafah con il carico di medicinali. La nostra intenzione era quella di consegnare le risorse direttamente, senza passare per altre organizzazioni, poiché sappiamo che c’è chi ha fatto dell’aiuto per i palestinesi un business.
Ci siamo quindi avvalsi dell’aiuto di singole persone fra i quali il presidente della Mezza Luna Rossa egiziana Haj Omar, il direttore dello stesso ente Mohamed Abdallah, il segretario generale del Governatorato del Nord del Sinai, gen. Jaber Al Arabi, l’ex sindaco di Gaza Mohammed al Kodwa ed il coordinatore delle ‘carovane’ per Gaza Mohamed Chrafi”.
Avete incontrato problemi? Vi hanno trattenuti? Vi sono state ostruzioni da parte del Governo egiziano?
“Assolutamente no, abbiamo goduto di un trattamento eccellente. Una volta passato il valico siamo stati accolti da molti volontari della Mezza Luna Rossa, anche europei, che vivono lì per aiutare il popolo palestinese sotto embargo. Ci siamo quindi uniti ad un gruppo di volontari tedeschi, tra i quali giornalisti, medici e persino una anziana sopravissuta all’olocausto e con loro siamo entrati nella città di Gaza. Non siamo andati in albergo: siamo stati ospitati dalle famiglie palestinesi”.
Cosa L’ha colpita entrando a Gaza?
“E andata via la luce, una consuetudine da quelle parti. Al molo c’era la barca ‘Oliva’ di Vittorio Arrigoni e in lontananza, nel mare, ben 5 fregate israeliane pronte a sparare a chiunque si avvicini a 3 miglia dalla costa”.
Arrigoni possedeva una barca?
Certamente, ed era temuta. Si tratta di una barchetta semplice, nulla di particolare, ma lui la impiegava per uscire con i pescatori, sapendo che gli israeliani non sparano agli occidentali”.
Immagino che la pesca sia una delle poche risorse alimentari di Gaza…
“Il pesce è inquinato per via delle acque nere che, non essendo depurate, scaricano direttamente in mare. I depuratori ci sono, ma non funzionano per la cronica mancanza di energia. I pescatori sono costretti ad operare entro le tre miglia di cui accennavamo prima e quindi il pescato risulta essere intossicato dai liquami. Non dimentichiamo che Gaza è una città di 400 mila abitanti e che nella striscia di Gaza vivono compresse come le sardine quasi un milione e 700 mila persone.
Non vi sono fabbriche funzionanti, non vi sono materie prime: gli unici alimenti arrivano da Israele, il quale ha così in mano un formidabile elemento di pressione”.
Cos’avete fatto con la tonnellata di medicinali che avevate portato con voi?
“Grazie a Mohamed Chrafi, li abbiamo consegnati direttamente agli ospedali. Il suo aiuto è stato essenziale, perché il nostro era un gruppo spontaneo e non rappresentavamo un’organizzazione vera e propria”
Se dovessimo quantificare la merce consegnata, a quanto ammonterebbe l’impegno economico?
“Ovviamente per noi non è stata una questione di economia, ma di pura solidarietà. In soldoni diremmo che la spesa ammontava a 7500 euro, ovvero lo stipendio mensile di una cinquantina di operai. Oltre agli studenti, si è prodigata nell’iniziativa anche l’Associazione nazionale dei farmacisti tunisini”.
Prima accennava a possibili business: di che si tratta?
“Ovunque c’è denaro, ci sono faccendieri e persone non proprio limpide, le quali possono arrivare a far sparire gli aiuti per rivenderli”.
Come vive la gente di Gaza?
“A differenza di noi, ha un ritmo più blando, più tranquillo, ma non per pigrizia: manca il lavoro, non vi sono attività di nessun genere. Le uniche cose che può fare uno di Gaza sono o scavare i tunnel per i traffici vari, o pescare il pesce malsano, o arruolarsi nelle file dei combattenti”.
Ma non ci sono pendolari che vanno a lavorare in Israele?
“No, sono gli abitanti di Gerusalemme Est e della Cisgiordania ad avere questa possibilità”.

Accanto a Sabrine Laribi, vi è un’altra donna che ha collaborato con la missione, pur senza intraprendere il viaggio. Si tratta di Leila Ayari, una tunisina sposata con un uomo palestinese, che ha vissuto nei Territori occupati per ben 12 anni.
“E’ stata Sabrine ad impegnarmi nella sfida per Gaza: ha coronato un mio sogno, un desiderio che ho sempre avuto. Vedevo sempre spedizioni straniere, ma io speravo che ve ne fosse anche una tunisina”.
Lei, tuttavia, conosce bene la situazione palestinese, poiché ha trascorso là una parte significativa della sua vita. Perché si parla sempre di Gaza e non della Cisgiordania?
“Sono contenta della Sua domanda, poiché sembra che il problema palestinese sia circoscritto esclusivamente alla Striscia di Gaza. Nella Cisgiordania, come a Gerusalemme Est, vi sono espropri, case abbattute, terreni coltivati dati alle fiamme, disoccupazione. E’ vero, vi sono diversi pendolari che lavorano in Israele, ma è bene ricordare che essi non sono pagati allo stesso modo degli israeliani e che il loro stipendio, a parità di mansioni e di livello, è un quarto dei loro colleghi. Vi sono poi i posti di blocco a rendere un calvario ogni spostamento”.
Sono 118 mila gli abitanti di Ramallah: che problemi incontrano in particolare?
“Vi è una sorta di epurazione burocratica in corso, che si evidenzia anche con la pressione fiscale che lo Stato esercita sulle persone e sulle imprese. Spesso le aziende, come i negozi, sono costretti alla chiusura per l’alta tassazione, la quale genera a sua volta disoccupazione e povertà. Io penso che se si vuole aiutare la Cisgiordania, la prima cosa da fare è un fondo di solidarietà internazionale, proprio per resistere all’esosità di Tel Aviv”.
Ma perché si parla così tanto di Gaza e così poco della Cisgiordania?
“Io penso che la causa di ciò vada individuata nell’incapacità degli abitanti della Cisgiordania di far sentire la propria voce, ovvero di portare all’attenzione del mondo i loro problemi attraverso una comunicazione oculata”.
Sempre più arrivano notizie di siti storici abbattuti, antiche tombe distrutte dalle ruspe: siamo davanti al tentativo di cancellare la cultura palestinese?
“Questo forse è il problema principale. Vede, nelle scuole israeliane insegnano ai giovani l’incredibile menzogna che quella era una terra senza popolo e loro un popolo senza terra. Non è assolutamente vero: la popolazione araba vive in Medio Oriente da sempre. Cancellare la cultura di un popolo, significa annichilirne l’identità, l’esistenza”.
Come può immaginare la Cisgiordania senza Israele, per quanto riguarda il lavoro e lo sviluppo?
“Oggi i  palestinesi per partire hanno bisogno di aiuto, perché non hanno niente. Vivono di agricoltura, lavorano tutto l’anno, ma il raccolto non è mai sicuro, poiché ci si può svegliare al mattino al rumore delle ruspe che scavano per le nuove case dei coloni o addirittura, come dicevo, vedere le coltivazioni date alle fiamme. Ai palestinesi i prodotti per la semina non costano come agli israeliani e ciò può tradursi nell’abbandono di intere porzioni di terreno agricolo”.
I palestinesi appaiono tuttavia spesso divisi, cosa che non giova alla loro causa…
“Sì, la frattura fra Hamas e Al Fatah è evidente e spacca nettamente persino diverse famiglie. Non sono stati di certo gli israeliani ad inventare il ‘dividi et impera’ ed io spero che un giorno la Palestina possa essere unita in un unico governo… oggi, se organizziamo una spedizione umanitaria, chi dobbiamo aiutare, Gaza o Ramallah?”
La Primavera Araba ha un significato anche per la Palestina?
“Parlando di Palestina siamo ancora in autunno: fino a che le ferite non guariscono, non possiamo parlare di ‘Primavera’. Noi intendiamo continuare il nostro operato, nella speranza che prima o poi si possa rompere l’embargo che attanaglia il popolo palestinese. Anzi, lancio l’idea di una Giornata mondiale delle ‘carovane’ per la Palestina, un momento in cui tutti si muovono, da tutte le parti del mondo”.
La donna a Gaza, la donna in Cisgiordania, la donna israeliana: cosa le unisce e cosa le divide?
“Io sogno l’epoca in cui si possa parlare di ciò che le unisce, punto e basta. Dalle donne palestinesi si può imparare la pazienza e la perseveranza. Esse hanno in comune la paura, le troppe lacrime negli occhi, come nel caso della mamma del prigioniero o di colui che è stato ucciso negli scontri con l’esercito israeliano: basta guardare le donne di Gaza e della Cisgiordania, non ci sono parole per descriverle. Sono donne che sognano tanto, ma vivono una realtà amara. Si differenziano dalle donne del mondo perché lì devono imparare come difendere la propria terra. La donna di Israele ha tante comodità, è più autonoma economicamente e ha i diritti che la donna palestinese che non può avere”.
Lei è una donna tunisina-palestinese, che ha vissuto in entrambi i paesi: può dirci cosa ha in Lei lasciato il segno della sua esperienza di vita in Palestina?
“I miei dodici anni a Gaza mi hanno fatto maturare nella donna che sono oggi. Ho trovato il coraggio di sopportare quel periodo per un solo scopo: dare ai miei figli anche la cittadinanza palestinese, per avere il diritto di essere anche palestinesi”.