La politica estera europea e l’ipotesi della cooperazione rafforzata

L’Europa sconta la propria debolezza nell’assetto geopolitico globale e l’incapacità di promuovere azioni efficaci fuori dai confini. I singoli stati non hanno sufficiente peso e la politica estera comune nell’Ue a ventotto paesi è impossibile. Una Cooperazione Rafforzata in materia potrebbe essere la soluzione.

di Francesco Linari

A due mesi dalle elezioni europee che hanno delineato l’assetto del Parlamento di Bruxelles per i prossimi cinque anni e a pochi giorni dalla nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, da più parti si invocano a gran voce importanti cambiamenti nella governance comunitaria, e non a torto. L’Unione Europea denota purtroppo notevoli problemi di coesione e capacità di affrontare con efficacia le sfide poste dalla delicata fase storica che stiamo vivendo. Tali problemi non sono contestabili in misura adeguata con l’attuale formato a ventotto paesi, a causa della frequente divergenza di interessi e culture e delle enormi difficoltà a realizzare politiche comuni da parte di una compagine così ampia di nazioni.
Tra le criticità esistenti, un dossier di importanza vitale ma ampiamente sottovalutato dalle opinioni pubbliche dei vari paesi, e talvolta anche dalle classi dirigenti, è la gestione della politica estera. L’esperienza ha dimostrato come siano risultate compromesse le capacità dell’Unione di ricoprire un ruolo attivo nella politica internazionale e di gestire le crisi politiche, militari e umanitarie che si presentano ai suoi confini e nell’ampia area di instabilità che va dal Sahel all’Asia Centrale, passando per Nord Africa, Medio Oriente e Mar Nero. Se fino ad ora tali funzioni sono sempre state di fatto svolte da alcuni paesi, principalmente Francia e Regno Unito e in subordine la stessa Italia, le crescenti difficoltà riscontrate nella gestione della crisi libica, l’incapacità di giocare un ruolo rilevante in quella siriana, lo stallo della questione russo-ucraina e l’inefficacia della strategia tesa a salvaguardare i positivi effetti del dialogo con l’Iran indicano chiaramente che l’azione di questi singoli stati è ben lontana dall’ottenere risultati accettabili, con grave pregiudizio della sicurezza e della prosperità dell’intera Unione. A ciò si aggiungono le persistenti tensioni con Mosca e le inquietudini per le strategie di politica estera e commerciale degli Stati Uniti di Donald Trump, decisamente più improntate all’unilateralismo e meno portate a tenere conto degli interessi europei rispetto a quanto facesse Washington in passato.
In un tale difficile contesto l’obiettivo dell’Italia dovrebbe essere quello di instaurare una collaborazione con gli altri stati fondatori e con ulteriori paesi che si riconoscono pienamente negli ideali liberal democratici alla base dell’Unione, attraverso una cooperazione rafforzata che abbracci vari aspetti collegati tra loro nell’ambito della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), includendo anche le politiche migratorie, in quanto strettamente connesse alle questioni dei rapporti di vicinato e di gestione delle crisi internazionali. Si dovrebbe in tal modo creare tra i paesi interessati procedure operative rapide e flessibili per la gestione delle crisi militari e umanitarie, anche con spiegamento di forze armate, avviare una più attiva politica di vicinato e abbinare quest’ultima ad una gestione comunitaria dei fenomeni migratori, con ripartizione collettiva obbligatoria dei richiedenti asilo e messa a punto di un efficiente sistema di rimpatri per coloro non aventi titolo per restare nell’Unione. In particolare per realizzare un tale sistema è necessario giungere alla stipula di accordi di riammissione con i paesi di provenienza, oggi esistenti solo con alcuni di questi, che dovrebbero diventare di competenza comunitaria. Naturalmente tali iniziative verrebbero attuate in applicazione di un indirizzo strategico deciso in incontri al massimo livello politico tra i capi degli esecutivi degli stati, certamente più facile da raggiungere da un gruppo di paesi che nel formato a ventotto. L’Italia avrebbe grandi benefici da un’evoluzione di questo tipo, purché sappia parteciparvi con consapevolezza dei propri interessi e degli obiettivi da raggiungere, oltre che dei suoi punti di forza e di debolezza, in quanto la nostra posizione geografica ci espone inevitabilmente agli effetti di quanto succede al di là della sponda sud (ma anche est) del Mediterraneo, ma al contempo ci dà la possibilità di assumere la leadership, se pur non in esclusiva, di una struttura strategica e operativa che si dimostri attore forte e deciso nell’area e che possa fungere per noi da moltiplicatore di potenza.
I paesi da coinvolgere dovrebbero essere la totalità o quasi di quelli dell’Europa occidentale, settentrionale e meridionale, con lo scopo chiaro di dar vita ad una comunità di stati sufficientemente coesa nel promuovere l’azione estera dell’Unione sulla base di obiettivi largamente condivisi quali la ricerca della stabilità nell’estero vicino e il contenimento e la regolamentazione dei flussi migratori. Dovrebbero essere pertanto esclusi coloro che non accettano la ripartizione dei richiedenti asilo, come gli stati appartenenti al gruppo di Visegrad, ma anche eventuali altri stati non disposti a sottoscrivere tale impegno, che probabilmente non mancherebbero. Di fronte alle prevedibili perplessità dei paesi nordici all’ingresso in un club orientato maggiormente ad affrontare minacce e sfide geopolitiche provenienti dai confini meridionali e sud-orientali dell’Ue, si dovrebbe garantire un maggiore coinvolgimento operativo e finanziario da parte dei paesi di tale area, quindi non perfettamente proporzionale ai classici indicatori economici e demografici. In merito al decisivo ambito delle politiche migratorie, anche gli hot spot dove mantenere in custodia i migranti in attesa della definizione del loro status dovrebbero essere situati nel territorio degli stati rivieraschi, con il finanziamento interamente a carico della nuova struttura comunitaria, mentre le missioni di pattugliamento dei mari e di controllo dei confini, pur finanziate collettivamente, diverrebbero coordinate da un comando strategico europeo e affidate alla guida operativa degli stati maggiormente esposti e con la necessaria esperienza tecnica, quale è l’Italia in riguardo a quanto accade nel Mediterraneo. Di assoluta e fondamentale importanza sarà infine costituire e rendere operativi nuclei di forze armate integrati al livello ritenuto più opportuno, pronti a intervenire nelle aree di crisi in tempi molto rapidi, sul modello di progetti già avviati da alcuni paesi e utilizzando anche l’esperienza di quelli realizzati nell’ambito della cooperazione rafforzata in materia di sicurezza e difesa partita nel 2017.
Quali sarebbero i principali problemi per la realizzazione di tale programma? Il primo scoglio da superare sarebbe la necessaria approvazione della cooperazione rafforzata all’unanimità nel Consiglio europeo, secondo quanto prescrive l’articolo 329 del TFUE. Non un ostacolo semplice, anche se l’afflato europeista e la sensibilità per le politiche di difesa della presidente von der Leyen sarebbero senz’altro d’aiuto. Dovrebbero essere anche governi come quelli ungherese e polacco ad accettare l’avvio della nuova compagine, pur senza farne parte e senza subirne gli effetti delle decisioni. Naturalmente essi potrebbero far valere il proprio veto, ma le altre capitali avrebbero a loro disposizione varie armi di persuasione, come ad esempio la non applicabilità delle decisioni alle aree di stretto interesse dei governi esclusi, e, se necessario, potrebbe esser fatta balenare la possibilità di rivalutare l’intero impianto dell’Unione, con messa in discussione della libera circolazione dei lavoratori e dell’erogazione dei preziosi fondi europei allo sviluppo per quei paesi che si dimostrassero irremovibili. Ovviamente l’attuale peso dell’euroscetticismo esistente in Europa non aiuta un tale progetto e in particolare l’Italia ben poco potrebbe contribuire in maniera attiva fino a quando sarà governata da una maggioranza politica costituita da partiti populisti e ostili all’integrazione europea. Ad ogni modo, per i soggetti che nel nostro paese si propongono come valida alternativa di governo e si riconoscono nell’appartenenza all’Ue, questo deve essere un obiettivo di medio periodo da coltivare però fin da subito, anche attraverso le alleanze e i dialoghi con i movimenti analoghi e affini presenti negli altri stati. Imprescindibile dovrebbero essere ovviamente il contributo attivo della Francia, con Macron già significativamente impegnata per una maggior integrazione nei settori di sicurezza e immigrazione, e soprattutto della Germania. Il coinvolgimento tedesco sarebbe probabilmente l’ostacolo maggiore, anche in presenza di un governo europeista come è stato quello di Angela Merkel in questi anni, essendo Berlino estremamente legata al rapporto con i paesi dell’Europa centro-orientale, le cui economie sono profondamente radicate nelle catene del valore dell’industria tedesca. Chi starà nella stanza dei bottoni a Palazzo Chigi dovrà riuscire ad operare adeguata pressione sul governo teutonico in modo combinato insieme ai Francesi (assurda è l’attuale contrapposizione con un paese con cui in Ue dovremmo essere alleati) e agli Spagnoli, oltre che ad altri governi di orientamento politico favorevole a progressi nell’unificazione europea. Sarà però fondamentale ricordare che una tale politica non potrà mai avere successo se non affiancata da iniziative responsabili in materia di controllo dei conti pubblici e del sistema bancario, che non provochino allarmismo nei paesi del Nord Europa, Germania inclusa, riguardo a presunte volontà di condivisione dei debiti e di realizzazione di una Transferunion da parte di noi mediterranei. Infine, ma non da ultimo per importanza, dovrà essere chiaro che un progetto di questo tipo non potrà mai avvenire in disaccordo o senza l’approvazione americana. Sarebbe folle tentarne l’avvio senza aver prima valutato con Washington le implicazioni strategiche e senza averne concordato obiettivi e modalità, non potendosi dimenticare come gli Usa siano la potenza dominante nel vecchio continente.
Le sfide sono enormi e i problemi non semplici da risolvere, ma non è accettabile che una superpotenza economica, tecnologica e commerciale come l’Ue non abbia la capacità di proiettare la propria forza in maniera decisiva, o almeno rilevante, nelle aree geografiche immediatamente oltre i propri confini e sia invece esposta alle crisi di stabilità senza poter reagire adeguatamente e senza saperle gestire. Questi obiettivi non potranno mai essere raggiunti senza una chiara presa di coscienza da parte dei governi riguardo alla necessità di esprimersi con una sola voce e agire di conseguenza. Sarà un processo lungo e non lineare, con rischi e ostacoli, ma se continuassimo ad attendere ad avviarlo potremmo un giorno pentircene.