La polizia può disarmare un uomo con un coltello sparando con l’arma in dotazione? Che cosa dice il codice penale

di Vincenzo Musacchio *

È accaduto giorni fa a Roma. La polizia spara contro un uomo armato di coltello. La persona, di origini africane, si legge nei giornali, come se l’origine fosse un elemento del delitto, aveva estratto un coltello nei pressi della stazione Termini seminando il panico. Un poliziotto per fermarlo ha sparato, ferendolo. A questo proposito è molto importante sapere cosa prevedano le norme che disciplinano l’utilizzo dell’arma di servizio. Avere in dotazione un’arma e non sapere se e quando usarla, infatti, può comportare conseguenze dannose per la propria e per l’altrui sicurezza. Che cosa dice il codice penale? Per chiarire i dubbi riguardanti questa delicata questione, dobbiamo fare riferimento all’articolo 53 del codice penale in cui sono racchiuse le disposizioni sull’uso legittimo delle armi. “Non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi”. Tra i doveri del proprio ufficio che legittimano l’uso di armi, ci sono: “respingere una violenza”; “vincere una resistenza all’Autorità”. L’uso di armi è consentito inoltre quando necessita per evitare il verificarsi di uno dei seguenti delitti: strage; naufragio aviatorio o ferroviario; omicidio volontario; rapina a mano armata e sequestro di persona. Nel caso in cui un appartenente alle forze di polizia faccia uso dell’arma di servizio per scopi privati, sarà direttamente responsabile delle conseguenze. In questo caso – così come quando si usa l’arma per motivazioni differenti dall’adempimento di un dovere d’ufficio – l’utilizzo dell’arma di servizio non è da considerarsi legittimo. È bene però fare una precisazione in merito ai primi due aspetti dettati dall’articolo 53 del codice penale, quello sull’uso delle armi per “respingere una violenza” e per “vincere una resistenza a un’Autorità”. In questi due casi, infatti, l’uso dell’arma non è sempre legittimo poiché è bene rimarcare che sarà compito esclusivo del giudice accertare se la violenza o la resistenza non si potessero vincere in altro modo, senza dunque mettere mano all’arma di servizio. Precisiamo dunque subito – a prescindere dalle cretinate di qualche politico analfabeta in materia di diritto penale – che l’utilizzo dell’arma sia sempre commisurato alla situazione concreta: questo deve essere l’ultimo strumento da utilizzare per risolvere una situazione di emergenza (circoscritta tra quelle descritte nell’articolo 53 c.p.). Il nostro ordinamento penale prevede altri due casi in cui un pubblico ufficiale può utilizzare l’arma di servizio. Il primo è quello previsto dall’articolo 52 del codice penale che norma la legittima difesa. “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta”. In questa circostanza, come nella precedente situazione di cui all’art. 53 c.p., sarà sempre il giudice ad accertare che la “difesa sia proporzionata all’offesa”. L’uso dell’arma quindi è legittimato dalle disposizioni dell’articolo 52 c.p. solamente nei casi in cui sussista un pericolo grave per la propria o l’altrui incolumità fisica. C’è infine l’articolo 51 del codice penale da prendere in considerazione, in tema di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. “Non è punibile chi adempie un dovere – o a un ordine – imposto dalla propria Autorità”. Risponde del reato, invece, il pubblico ufficiale che “ha dato l’ordine”. Stando a quanto descritto dall’articolo 52 del codice penale, quindi, non è punibile l’agente di polizia che spara – o commette una violenza – su ordine del proprio superiore, ma solo quando per errore di fatto ritenga di obbedire a un ordine legittimo. Sarà chi ha dato l’ordine, quindi, a risponderne davanti alla legge. Circostanza che non sappiamo se ricorra o no nel caso di Roma. Questa è la parte normativa che, in uno Stato di diritto, si applica senza se e senza ma. Vi è poi l’aspetto sostanziale che prescinde dal diritto e lo introduciamo con un interrogativo: esiste un modo per togliere un coltello dalle mani di qualcuno senza ferirlo o ferirsi? Le mosse per bloccare o parare i fendenti sono nella migliore delle ipotesi a bassa probabilità di successo salvo che non si sia adeguatamente attrezzati (es. con scudi di protezione e dotazione antisommossa) e in forze sufficienti. Un poliziotto può provare a fare qualcosa? Certo, possono provare e potrebbero anche avere successo. Il punto è: quanto rischio si vuole che corra un poliziotto? Quanto vale la vita di un poliziotto? Questi sono giudizi di valore che sono espressi in modo diverso, in Paesi diversi, da persone diverse. C’è chi pensa che la polizia debba correre il rischio, chi invece che non sia ragionevole esigerlo. Personalmente partiremmo da un presupposto diverso. Abbiamo dotato le forze di polizia di tutti gli strumenti (formativi e materiali) per correre quel livello di rischio? Ho insegnato sia alla Scuola Ufficiali del Carabinieri a Roma, sia presso l’Alta Scuola della Presidenza del Consiglio ad appartenenti alle forze dell’ordine e già a quei tempi ho loro ribadito come, con regole specifiche e tassative e dopo adeguati test di sicurezza, le pistole a impulsi elettrici potessero rappresentare uno strumento alternativo per affrontare le sempre più frequenti dinamiche operative, dove soggetti armati e fuori controllo espongono persone e operatori di polizia a gravi rischi e alla grande responsabilità di essere costretti all’uso dell’arma da fuoco. Le pistole a impulsi elettrici in determinate circostanze e ripeto con regole tassative possono essere lo strumento meno lesivo è più efficace per la difesa della pubblica incolumità. Non dico che da domani il dissuasore elettrico diventi arma in dotazione delle forze di polizia, ma perlomeno si apra un dibattito serio per il necessario ammodernamento del loro armamento e per la maggiore sicurezza di cittadini.

* Giurista, criminologo e docente di diritto penale. Associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra.