La roccaforte di Putin

di Marco Corno –

Ormai è chiaro, negli ultimi anni la Russia è tornata a ricoprire un ruolo fondamentale all’interno dell’ordine Internazionale per porre un freno agli errori commessi dall’occidente nello scenario mediorientale e ucraino. L’attuale progetto geopolitico di Vladimir Putin si potrebbe definire euroasiatico, finalizzato alla difesa dei confini nazionali e degli interessi di Mosca e dei suoi alleati da qualsiasi tentativo di destabilizzazione. La visione difensiva del “nuovo zar” prevede la creazione intorno alla nazione di un’area di contenimento, in grado di proteggerla da qualsiasi minaccia esterna, che ha come suo perno il Mar Nero. Con il sostegno ai ribelli del Donbass e l’annessione della Crimea nel 2014 e forte anche del prestigio ottenuto in Medio Oriente, Putin ambirebbe a espandere la propria influenza nella parte nord del Mar Nero tramite una spartizione-divisione dell’Ucraina accordata con la Germania per creare, nel nord-est, una Repubblica Ucraina dell’Est estesa dal Donbass fino alla Transnistria, eventualmente strappata alla Moldava con un accordo internazionale, in modo da creare un “corridoio ucraino” che, unito alla Crimea, garantirebbe il controllo assoluto di Mosca sul lato nord del “lago russo”.
A ovest Putin, sfruttando i recenti governi filo-russi saliti in Romania e Bulgaria e la debolezza dell’Unione Europea, si guadagnerebbe tramite accordi commerciali-energetici la benevola neutralità di Romania e Bulgaria nelle questioni del “Mar Russo”.
Per quanto riguarda il fianco sud, il presidente russo non vuole più riesumare la politica zarista del XIX secolo di conquista di Costantinopoli e degli stretti, considerati gli ultimi ostacoli che impedivano allo zar l’accesso all’ambito mar caldo, ma creare un sistema di alleanze lungo quello che il presidente Truman nominò, in occasione del discorso al Congresso a Washington nel 1947, il Northern Tier (bastione settentrionale), composto da Iran, Turchia e Grecia da utilizzare, in quel periodo come linea di contenimento per evitare l’espansione del comunismo in Europa.
Il presidente russo, con la guerra civile nel Sira, è riuscito progressivamente a portare Iran e Turchia dalla propria parte.
Con l’Iran, la Russia ha ormai consolidato una cooperazione militare-politica quasi indissolubile che ha permesso al paese mediorientale di tornare ad essere una potenza regionale di primo piano sottraendo zone d’influenza all’Arabia Saudita, sua diretta avversaria, e riscattare il mondo sciita sconfiggendo Daesh e avviando un programma di “sciitizzazione” della Siria e dell’Iraq con l’aiuto anche degli hezbollah del Libano. La cooperazione internazionale tra la Russia e l’Iran ha portato anche all’accordo sul nucleare iraniano dei 5+1 (Usa, Russia, Francia, Inghilterra, Germania e Cina) permettendo all’Iran di aprire al commercio europeo, eliminando le sanzioni e attirando ingenti investimenti con buone prospettive di sviluppo. Dal punto di vista strategico Putin ha voluto creare una specie di contratto di assicurazione onde difendere la sovranità e l’integrità dell’Iran nel caso fosse stato oggetto di ambizioni espansionistiche da parte di qualche paese firmatario dell’accordo, come si è constato recentemente con il presidente Donald Trump (l’Iran è inserito nella Black List americana come stato canaglia) che si è trovato immediatamente contro gli altri stati d’Europa il cui volume d’affari con l’Iran è ormai così elevato che la recessione sarebbe solo sfavorevole.
La Turchia invece rappresenta il capolavoro diplomatico di Putin.
Quando la Russia decise di entrare in guerra a fianco del regime siriano il 30 settembre 2015, la Turchia aveva rotto le relazioni diplomatiche con la Siria di Bashar al-Asad e finanziava i gruppi ribelli anti-regime compresi i jihadisti dello Stato Islamico, in più la politica estera turca di “corteggiamento” del Kurdistan iracheno aveva irritato i vicini Iraq e Iran facendo cadere il paese in un logorante isolamento internazionale, ponendo fine alla cosiddetta profondità strategica che aveva garantito ad Ankara un ruolo di primo piano nello scacchiere mediorientale. Il ritorno prepotente del Cremlino in Medio Oriente, che rischiava di ledere gli interessi turchi in Siria, spinse Ankara a fare scelte avventate che causarono nel novembre 2015 l’abbattimento del caccia russo Su-24 dopo aver violato lo spazio areo turco per 13 secondi. La tensione che ne seguì ruppe le relazioni diplomatiche e all’imposizione di pesanti sanzioni economiche da parte di Mosca nei confronti di Ankara.
Ma le scuse ufficiali di Recep Tayyp Erdogan del 27 giugno 2016 vennero accolte con favore da Putin che intravide la possibilità di restaurare i rapporti con la Turchia fondamentale, geo-economicamente parlando, per rafforzare il fianco sud del Mar Nero. Con il fallito golpe del 15 luglio 2016 molti credettero che Ankara avrebbe preso ancora una volta le distanze da Mosca ma non solo i due ex imperi non si allontanarono, bensì diedero vita ad una cooperazione politico-militare molto importante combattendo Daesh e i ribelli in Siria (come al-Nusra).
Erdoǧan dal canto suo considera Putin un alleato importante per ricostituire lo spazio turco perso con le Primavere Arabe, in particolare bramerebbe la conquista di quel territorio che Davutoglu (ex ministro degli Esteri) definì la mezzaluna ottomana ovvero un’area delimitata dalle città di Damasco, Aleppo, Mosul, Urfa e Diyarbakir che costituisce l’Heartland ottomano smembrato con l’accordo imperiale di Sykes-Picot (1915), la cui unione e riconquista riporterebbe la Turchia a potenza non di primo piano ma dominante nel Medio-Oriente e dato che Damasco è una di queste città chiave la restaurazione dell’idillio turco-siriano è di fondamentale importanza.
Con l’inaspettata “intesa dei due imperatori” Mosca si è posta definitivamente come potenza di equilibrio della Siria tant’è che nel dicembre 2016 è stato negoziata la tregua tra le parti belligeranti. La conferenza di Astana del 2017 tra Russia, Turchia, Iran, Siria e i ribelli ha segnato il definitivo trionfo di Putin e dei suoi alleati in Medio Oriente isolando gli Usa che hanno ricoperto soltanto un ruolo marginale.
La Turchia sta ritornando ad avere un ruolo primario in medio-oriente soprattutto grazie alla sempre più alta tensione con gli Usa non solo per la questione di Gerusalemme capitale ma anche per il finanziamento dei curdi del Rojava siriano (non a caso recentemente il Reis ha avviato l’operazione militare “Ramo di Ulivo” nel nord della Siria per creare una zona cuscinetto anti-curda di protezione del confine turco-siriano) che rischiano di diventare una minaccia alla sicurezza nazionale turca qualora le armi del YPG passassero nelle mani dei curdi del Kurdistan turco. Tale situazione rafforza sempre di più la partnership con Mosca mentre allontana sempre di più Ankara dalla Nato che da semplice “spina nel fianco” si potrebbe trasformare in una spada di Damocle se Erdogan, avvantaggiandosi dell’amicizia con Putin, decidesse di incominciare a sviluppare un proprio arsenale nucleare atomico come deterrenza al finanziamento bellico ai curdi da parte di Washington. Se tutto ciò accadesse si potrebbe prospettare anche una possibile uscita della Turchia dall’Alleanza Atlantica con conseguenze imprevedibili.
Negli ultimi anni si sente parlare poco di Grecia, ma la situazione economico-nazionale è ulteriormente peggiorata. Putin vedrebbe di buon occhio l’entrata di Atene nell’orbita euroasiatica visti i precedenti storici tra questi due paesi. Nel 1822 la crisi greca iniziò la lenta ma costante frammentazione dell’Impero Ottomano e oggi la situazione potrebbe ripetersi con Bruxelles indifferente al malessere del paese, culminato qualche mese fa in sciopero nazionale mostrando tutta la fragilità delle istituzioni greche possibili vittime, a breve, di un colpo di stato la cui eventuale Grexit provocherebbe conseguenze imprevedibili per l’Ue. Se Atene dovesse entrare nella sfera di influenza euroasiatica, Putin completerebbe il suo controllo sul Northern Tier e la roccaforte russa diventerebbe inespugnabile.