di Giuseppe Gagliano –
C’è una Russia che continua a muoversi, silenziosa ma decisa, nelle pieghe della geopolitica asiatica. Una Russia che, mentre l’occidente la isola, si reinventa partner strategico per le economie emergenti del Sud-est asiatico. L’annuncio della disponibilità di Rosatom a costruire una centrale nucleare in Vietnam e a rafforzare la cooperazione con il Myanmar nel settore dell’energia atomica non è solo un fatto tecnico. È piuttosto la spia di una strategia globale che Mosca ha deciso di percorrere con pazienza e lucidità: costruire alleanze dove altri non guardano, o si ritirano.
Lo ha spiegato con chiarezza Lyudmila Vorobyova, direttrice del Terzo dipartimento asiatico del ministero degli Esteri russo, in un’intervista a RIA Novosti: “Siamo pronti a procedere col Vietnam. E con il Myanmar, dopo la firma dell’accordo intergovernativo a marzo, si è aperta la strada concreta all’attuazione di un programma nucleare civile”. Dietro le parole della diplomatica, però, si intravede un gioco molto più ampio.
Nel nuovo lessico della diplomazia eurasiatica, l’energia nucleare è diventata qualcosa di più di una risorsa: è uno strumento di proiezione d’influenza, una tecnologia ad alto valore simbolico ed economico. E in questo la Russia ha un vantaggio competitivo: Rosatom, società statale con ramificazioni in decine di Paesi, non solo fornisce reattori, ma forma tecnici, costruisce università, implementa standard e infrastrutture. In pratica: costruisce dipendenza tecnologica di lungo periodo, in cambio di fedeltà politica o, quanto meno, di un’astensione da alleanze ostili.
Vietnam e Myanmar sono due casi paradigmatici. Il primo, tradizionalmente vicino a Mosca sin dai tempi della Guerra fredda, è ora un Paese emergente in cerca di diversificazione energetica, sotto la pressione dell’urbanizzazione e dello sviluppo industriale. Il secondo, isolato dall’occidente dopo il golpe militare del 2021, ha trovato nella Russia un alleato affidabile, capace di fornire tecnologie, armi e ora anche competenza nucleare, in cambio di appalti e posizionamento regionale.
Ciò che colpisce, nella lettura più ampia, è il riferimento della diplomatica russa all’interesse crescente da parte dei Paesi dell’ASEAN verso l’energia nucleare. Ed è proprio su questa frontiera che la Russia gioca una partita geopolitica più ambiziosa: diventare l’interlocutore privilegiato di un’intera area in cerca di autonomia energetica e infrastrutture moderne, proprio mentre la Cina appare troppo dominante e gli Stati Uniti sempre più disinteressati a una presenza coerente e di lungo termine nella regione.
Mosca propone una cooperazione non intrusiva, basata su tecnologia, assistenza e “rispetto per la sovranità”, concetto molto apprezzato da governi semi-autoritari come quello birmano o cambogiano. In cambio ottiene influenza diplomatica, accordi commerciali e margini di manovra politica in un’Asia sudorientale che resta il crocevia tra Oceano Pacifico e Oceano Indiano, tra Indo-Pacifico e progetti di contenimento della Cina.
C’è poi la dimensione economica. Le centrali nucleari, oltre a garantire introiti per miliardi di dollari, generano interdipendenza industriale. Le società locali diventano subcontractors, le università avviano corsi in cooperazione con Rosatom, le élite tecnocratiche si formano secondo standard e linguaggi russi. È una diplomazia dell’infrastruttura, non dissimile da quella cinese, ma con un tocco più tecnico e meno predatorio. E in contesti in cui gli investimenti occidentali si fanno più cauti o condizionati a criteri ESG (ambiente, diritti umani, governance), la proposta russa appare diretta, concreta, “pragmatica”.
In definitiva la mossa russa in Vietnam e Myanmar non è un’operazione settoriale, ma una tessera del puzzle di un ordine mondiale multipolare che Mosca persegue con sostanza. Dove l’occidente agisce con sanzioni e sospetti, la Russia offre tecnologie e cooperazione. Dove altri vedono instabilità e fragilità istituzionale, Mosca intravede spazi per inserirsi e rinsaldare presenze storiche.
L’atomo, un tempo simbolo di deterrenza e distruzione, oggi nelle mani del Cremlino è strumento di penetrazione pacifica. Un modo per restare nella partita globale anche senza jet da combattimento o portaerei. Con un vantaggio strategico: le centrali, a differenza delle basi militari, non si smantellano con una crisi diplomatica.