La Russia ai tempi del coronavirus

di Dario Rivolta * –

La crisi dovuta alla pandemia Coronavirus e il crollo delle quotazioni del petrolio che ne deriva hanno contribuito a peggiorare le condizioni economiche della Russia, già penalizzata dalle sanzioni occidentali e dalla riduzione degli investimenti stranieri. Per paura di una estensione incontrollabile dei contagi il governo ha decretato il mese di aprile come “non lavorativo” dando così, seppur di malavoglia, un ulteriore colpo all’economia già sofferente. Alla Duma è anche stato presentato un progetto di legge che prevede che venga istituita una moratoria sui fallimenti per un certo numero di società che rientreranno in una lista ancora da compilare. I pro e i contro di un’iniziativa di questo genere, qualora approvata, sono evidenti ma il fatto che se ne parli spiega quanto il Governo stia cercando di prepararsi a possibili pesanti conseguenze di questa crisi.
È chiaro a tutti che il problema di come superare i problemi innescati dalla generale sospensione delle attività a causa della pandemia tocchi tutti i Paesi e non solo la Russia e ogni governo del mondo sta valutando quale sarà il costo cui si va incontro e cosa occorra fare per favorire la ripresa.
La Russia ha lo svantaggio che ancora oggi il 30 per cento del proprio prodotto nazionale lordo dipende dall’esportazione delle sue materie prime energetiche e che esse costituiscono ben il 60 percento del valore totale delle esportazioni. È naturale che, anche da loro, aumenti il malcontento di certi settori della popolazione e chi ne è capofila è quella classe media che era cresciuta così tanto negli anni da quando Putin è al potere e si stava appena riprendendo dalla crisi del 2008. È bene ricordare che tutti i valori macroeconomici del Paese dal 1999 ad oggi sono cresciuti virtuosamente e che, anche grazie a un buon livello dei prezzi del petrolio e alla capacità di Putin di rinsaldare il potere centrale dello Stato, la povertà si è ridotta di quasi la metà e la capacità di spesa del cittadino qualunque è aumentata in modo prima inimmaginabile. Per fare qualche esempio: il Pil (a parità di potere d’acquisto) è aumentato di sette volte, la mortalità infantile è passata dal 19 al 4 per mille, la speranza di vita dai 66 ai 71,6 anni, i poveri da quaranta milioni sono scesi ai venti milioni, il numero di automobili private è triplicato e il salario medio è salito da 1523 rubli a 43.944 (anche contando che l’inflazione ha avuto un suo ruolo passando tuttavia dal 36,5 percento al 4,2 attuale). Oggi, per quanto in ritardo rispetto ai Paesi più industrializzati (quando il fenomeno cominciò durante gli anni ’80), anche in Russia la classe media subisce una contrazione e la crisi in corso non può che peggiorare la sua situazione.
Nessuno può affermare che oggi in Russia tutti siano contenti e felici e, soprattutto tra gli intellettuali delle grandi città aumenta lo scontento per uno standard di liberà individuale che viene, giustamente, considerato ancora ben lontano dai livelli occidentali. A questo proposito è bene però ricordare che ogni Paese è diverso da un altro per storia e cultura e l’idea che un metodo di convivenza sociale da noi giudicato ottimale debba essere applicato pari pari altrove ha dimostrato la sua inadeguatezza e il suo fallimento a partire da quanto successo in Iraq, Afghanistan e in molti altri Paesi ove si voleva “esportare” la democrazia liberale. Non va dimenticato che la Russia è il Paese geograficamente più grande al mondo, con undici fusi orari e con larghe parti di territorio difficilmente raggiungibili in alcuni mesi dell’anno, con nazionalità diverse (81% di Russi e oltre 190 minoranze etniche + religioni tra cui l’Islam). Se si pensa che sia corretto l’obiettivo di mantenere il paese unito e compatto, diventa ovvio che un forte potere centrale sia indispensabile. D’altra parte, seppur con metodi ben diversi e più “occidentali”, basta costatare che perfino la “piccola” Francia ha sempre privilegiato il mantenimento di un forte potere centralizzato su Parigi a discapito delle autonomie locali.
Sostenere, tuttavia, che il governo di Putin abbia accumulato solo successi sarebbe comunque fuorviante. Di là dai suoi propositi frequentemente annunciati, l’economia continua a rimanere troppo dipendente dalla vendita di materie prime, la burocrazia resta inefficiente e corrotta e la spinta che si voleva dare allo sviluppo di nuove tecnologie con la creazione della città di Skolkovo, la Silicon Valley russa, si è realizzata più sulla carta che nella realtà (cioè grandi investimenti che generano topolini).
Nel 2024 dovrebbe scadere il suo secondo e (a Costituzione vigente) ultimo mandato da presidente, ma cosa succederà dopo è ancora incerto. In un primo momento lui stesso aveva fatto presentare il progetto di una nuova Costituzione che prevedeva un allargamento dei poteri parlamentari e una conseguente riduzione di quelli del presidente. Si è immaginato che per quel momento lui volesse ritagliarsi il ruolo di “leader occulto” mettendosi a capo di una sorta di “soviet supremo” che avrebbe mantenuto il potere di condizionare gli uni e gli altri. Salvo che, prima che il progetto fosse approvato dalla Duma, un emendamento, avanzato probabilmente con il suo beneplacito, ha stabilito che il limite di due mandati presidenziali persista ma si elimina la dicitura “di seguito”. In teoria, poiché cambierebbero i poteri, ciò significherebbe che potrebbe ripresentarsi ancora come candidato presidente essendosi azzerati i mandati precedenti. Tra chi si occupa di “russologia” è corsa l’interpretazione che si trattasse di un suo colpo di mano per garantirsi nuovamente la presidenza ma, personalmente, mi sento di avanzare un’altra interpretazione. Innanzitutto la nuova Costituzione dovrà ancora essere approvata da un referendum popolare (per ora rimandato causa coronavirus, ma probabilmente destinata a passare con voto favorevole) e, qualora entrasse in vigore e Putin si ripresentasse, egli diventerebbe presidente con poteri inferiori a quelli attuali. Chi glielo fa fare? Il senso di quell’emendamento potrebbe invece essere legato alla possibile lotta per la successione: se tutti in Russia dessero per scontato che nel 2026 ci sarebbe un nuovo presidente, la lotta tra i vari pretendenti partirebbe immediatamente e, comunque, da qui a quell’anno lui apparirebbe sempre più come “un’anatra zoppa”. Lasciare aperta, al contrario, la porta di una sua ricandidatura, non solo obbligherebbe tutti i suoi diretti subordinati a rimanergli fedeli e ubbidienti ma consentirebbe a lui di preparare la successione con calma rimanendo pure il “maître du jeux”. Putin terrà duro finché non troverà un successore in grado di non mandare a all’aria tutto il lavoro di ricucitura e ricostruzione dello Stato svolto durante i suoi mandati. È in atto peraltro un processo di “epurazione” dei personaggi formati negli anni ’90 e legati al carro neoliberale.
È naturale che i nostalgici della guerra fredda continuino a immaginare scenari su come fare per “contenere” la Russia e, magari, auspicare la caduta di Putin. Così come restano in campo le fantasie di fanatici anti-russi e di multinazionali varie su “come sarebbe bello se la Russia scoppiasse disfacendosi in tanti piccoli staterelli”. Ciò che politici sensati dovrebbero invece pensare è quali sarebbero le conseguenze per il mondo (e per noi europei) se, per un qualunque motivo, quel Paese enorme e dotato di armi nucleari dovesse ricadere nell’anarchia post-disfacimento sovietico o diventare preda di imprenditori stranieri senza scrupoli. Ha senso immaginare che i russi e il mondo starebbero meglio di oggi?
Al contrario, sempre quei supposti politici di buon senso dovrebbero considerare che una Russia stabile e ben controllata da un suo governo potrebbe costituire per le imprese occidentali una enorme opportunità di sviluppo, viste le evidenti esigenze di modernizzazione e l’inesauribile disponibilità di materie prime. Senza contare che, se il vero forte “competitor” del nostro mondo occidentale è la Cina e non altri (come Donald Trump ha capito chiaramente), avere la Russia come alleato e come ottimo mercato di sbocco per le nostre merci e la nostra tecnologia non potrebbe che favorirci.
A questo proposito sarebbe bene che si guardi con razionalità alla questione delle sanzioni per calcolare quanto esse nuocciano a noi, non solo economicamente. Anche il problema di voler considerare la Crimea come “assolutamente e sempre “(Pompeo) ucraina andrebbe riconsiderato. Abbiamo sempre parlato della necessità di riconoscere il diritto dei popoli ad autodeterminarsi e ci si è appellati a questo principio per forzare l’indipendenza del Kossovo. Ebbene, una rivista non certo sospettabile di essere sovvenzionata dal Cremlino, Foreign Affairs (3 aprile 2020- To Russia with love), ha chiesto alla società Levada Center nel 2014 e nel 2019 di svolgere dei sondaggi per capire le opinioni dei cittadini di Crimea nei confronti della loro appartenenza alla Russia o all’Ucraina. Sia nel primo sondaggio, quello del 2014, che nel successivo del 2019 i crimeani di nazionalità russa si sono espressi a favore della riunione con la madre patria nell’84 per cento dei casi. Negli stessi sondaggi, quelli di nazionalità ucraina lo hanno fatto nel 77 per cento degli interrogati. Cosa ancora più sorprendente è che i locali di nazionalità tartara che nel 2014 erano a favore della Russia solo nel 21 percento dei casi, nel 2019 sono diventati il 52 percento. Perfino l’apprezzamento personale verso Vladimir Putin è stato del 61 per cento tra gli ucraini e “solo” del 60 percento tra i russi. Molto più basso tra i tartari ove il giudizio positivo ha raggiunto il 34 percento. Alla domanda se Putin sia “credibile” e meriti fiducia, una media dell’85 percento dei crimeani di ogni nazionalità ha risposto affermativamente.
Ha ancora senso continuare a difendere la prospettiva che la Crimea debba essere annessa all’Ucraina?

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.