La Russia nel Mediterraneo: conseguenze sugli equilibri locali e globali

di Giacomo Barbetta –

Le mire della Russia sul Mediterraneo per rafforzare la propria posizione e promuovere i propri interessi nazionali hanno radici profonde. Già a partire dal XV secolo, infatti, la Russia guarda al Mediterraneo come “un obiettivo strategico da raggiungere a tappe” attraverso il rafforzamento delle proprie posizioni sui cosiddetti “mari ristretti” sui quali ha sbocco, primo fra tutti il Mar Nero.
In chiave geopolitica il Mediterraneo, e in particolare la sua parte orientale, costituisce la via maestra per raggiungere il Canale di Suez, il Mar Rosso e il Golfo Persico, corridoi privilegiati per le rotte mercantili internazionali e per gli spostamenti delle flotte militari statunitensi ed europee.

(Fonte: InsideOver, giugno 2019).

In pratica la Russia ha considerato e considera attualmente la sua presenza nel Mediterraneo come cruciale per garantirsi un ruolo da protagonista nello scacchiere globale. Questo, dopo la messa in sicurezza del Paese sul fronte interno (estirpazione della piaga del terrorismo soprattutto di matrice cecena) e il rilancio economico (anche attraverso la formazione di una classe media), è il terzo obiettivo che Putin si è prefissato di raggiungere nel periodo della sua permanenza al Cremlino, perseguendolo con la determinazione e spregiudicatezza che ha contraddistinto finora il suo mandato.
Ciò oltre a ridefinire profondamente gli equilibri nell’area e i rapporti di forza, ha avuto e avrà, come vedremo, anche ripercussioni sull’ordine mondiale poiché, secondo alcuni commentatori, la presenza non solo di facciata ma tangibile della marina russa nella questione siriana ha di fatto sancito la fine dell’egemonia ideale e militare statunitense e in generale una reazione al tentativo della NATO di ampliare la sua area di influenza ad est.
Per Mosca, infatti, come rilevato da autorevoli analisti (Centro Studi Internazionali – CeSI, 2020) “il Mediterraneo rappresenta un confine naturale della NATO: navigare liberamente nelle sue acque significa ampliare le opportunità di deterrenza nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati, vantaggio particolarmente importante nel periodo della Guerra Fredda, che tuttavia gode di assoluto rilievo anche oggi”.
Parag Khanna, stratega politico indiano, nel suo saggio dal titolo “Il secolo asiatico?”, ha evidenziato come “da quando è crollata l’Unione Sovietica, gli strateghi occidentali non hanno fatto altro che ripetere che la Russia non avrebbe avuto altra scelta che accettare l’espansione della NATO e un ruolo subordinato all’interno di una alleanza con gli Stati Uniti e con l’Europa”.
Evidentemente non è andata proprio così. La Russia si percepisce come una potenza globale e di conseguenza agisce spesso andando oltre le proprie possibilità come è evidentemente avvenuto nel caso del riarmo e potremmo dire della rifondazione della flotta sovietica praticamente inesistente alla fine della Guerra Fredda.

Il Mediterraneo: perché e come.
Il generale Carlo Jean in un suo recente articolo dal titolo “Il ritorno della Russia nel Mar Mediterraneo” (GNOSIS – Rivista italiana di intelligence, 3/2014), chiarisce i motivi per cui la Russia considera di assoluta rilevanza strategica la propria presenza nel Mediterraneo.
In primo luogo, tale presenza è la naturale applicazione di un modello di realpolitik in senso tradizionale “informata ai principi della ‘guerra non-lineare’, teorizzata da Vladislav Surkov” che prevede “una strategia indiretta, basata, come in Ucraina, sull’uso coordinato di tutti gli strumenti di potenza a disposizione (economici, politici, comunicativi e militari)”. Il successo di questa strategia, dal punto di vista della diplomazia militare, sta, non tanto nell’entità delle forze (aspetto sul quale evidentemente la marina russa è ancora soccombente nell’area rispetto a Usa e Europa) quanto piuttosto “dalla credibilità di concretizzare le minacce” (su cui invece la Russia registra un netto vantaggio – come ha dimostrato anche la recente esperienza ucraina). Quindi pur nell’impossibilità, a detta degli stessi Ammiragli russi, di garantire almeno per i prossimi anni, una stabile presenza navale nel Mediterraneo, certamente questo atteggiamento assertivo induce gli altri attori in gioco a tenere in debito conto la presenza della marina russa nell’area.
Il secondo motivo riguarda l’Ortodossia, componente significativa dell’identità nazionale. I russi rappresentano Mosca come la Terza Roma, erede di Bisanzio e si sono assunti la responsabilità di proteggere i cristiani d’Oriente. “La religione ortodossa, d’altra parte, rappresenta un riferimento importante sia per la coesione patriottica, sia per la politica estera sin dai tempi dell’impero zarista”, come chiarisce lo stesso Jean, il quale inoltre asserisce che “con l’avvicinamento fra Cattolicesimo e Ortodossia, seguito alla scomparsa di Giovanni Paolo II e del Patriarca Alexei II, la convergenza fra gli interessi geopolitici e quelli confessionali di Mosca è divenuta ancor più evidente”.
Il terzo punto riguarda il vantaggio che Mosca pensa di poter conseguire dall’instabilità dell’area medio-orientale e dalla crisi dell’Europa che lascia alla Cina e alla Russia (le quali negli anni hanno intessuto strette relazioni) una notevole possibilità di manovra nel Mediterraneo orientale e in Africa.
Pur non potendo spingere il confronto muscolare oltre una certa soglia, vista l’inferiorità delle forze che Mosca può mettere in campo e le eventuali rappresaglie Usa, non tanto in campo militare quanto su quello finanziario e speculativo sul prezzo del petrolio, è evidente la volontà russa di entrare a pieno titolo in questo “Great Game”, pur non possedendo ancora la statura necessaria.
Tuttavia, anche in questo frangente si dimostra valido l’assunto secondo il quale per il Cremlino l’obiettivo geopolitico è sempre più importante dei costi economici necessari per raggiungerlo.
Carlo Jean, nell’articolo sopra citato, mostra brevemente come la flotta russa, dal 1991, data in cui è terminata la sua presenza nel Mediterraneo, sia risorta dalle propria ceneri grazie a uno sforzo economico immenso e a una visione strategica a lungo termine maturata proprio durante i due decenni di “mondo unipolare” a guida americana.
Il Piano per gli armamenti 2011-2020 inaugurato dal Presidente Medvedev ha fatto poi uscire allo scoperto le ambizioni russe; oggi il bilancio militare russo è il terzo al mondo dopo quello di USA e Cina e circa un quarto di questo bilancio decennale straordinario (per un ammontare di circa 150 miliardi) è dedicato alla Marina.
Questo enorme investimento ha consentito la ricostituzione di una forza navale che, secondo quanto riportato da Jean, nel 2020 avrebbe dovuto annoverare “16 sommergibili – di cui otto a propulsione nucleare – e 51 navi moderne – di cui 15 fregate, 25 corvette e quattro navi d’assalto anfibio tipo Mistral. (…). È prevista, poi, l’acquisizione di una seconda portaerei e l’ammodernamento dell’aviazione della Marina e di tre dei potenti incrociatori corazzati tipo Kirov”.
La strategia russa, oltre all’arricchimento e all’ammodernamento dell’arsenale bellico è passata, come evidenziato dagli analisti, anche per un rafforzamento della propria posizione nei cosiddetti “mari ristretti” (Baltico, Caspio e soprattutto Mar Nero), attraverso il perfezionamento di una particolare tattica denominata littoral warfare strategy: “L’esperienza accumulata dalla Marina della Federazione Russa nelle operazioni contro la Georgia (2008) e nel recupero della Crimea (2009) ha, convinto l’Ammiragliato di San Pietroburgo a perfezionare una particolare strategia marittima per i mari ristretti, che sta avendo un’importante ricaduta sui programmi navali della presidenza Putin. Si tratta di una littoral warfare strategy in chiave slava, che si rifà a concetti russi degli anni cinquanta basati sull’entrata in servizio di unità di abbastanza modeste dimensioni, ma dotate di un potentissimo armamento”. Attraverso questa strategia gli analisti ritengono che “la Marina Russa ha mantenuto o addirittura accresciuto la sua capacità sia di sea control che di power projection surclassando le altre nazioni rivierasche in modo da assicurarsi attraverso il suo potere marittimo una capacità di presenza operativa e di deterrenza convenzionale. Inoltre le unità presenti nel Mar Nero e nel Baltico possono abbastanza comodamente trasferirsi in altre zone d’interesse, come sta avvenendo in questi giorni per l’area del Mediterraneo Orientale in considerazione della sempre più complessa crisi siriana” (Ramoino, P., in analisidifesa.it, gennaio 2017).
La Russia, quindi, ha compensato l’assenza di basi stabili nel Mediterraneo radicando la propria presenza nel Mar Nero con l’istituzione, nel 2014, delle basi navali di Novorossiysk e Sevastopol in Crimea “dedicate al supporto logistico e al comando e controllo della Formazione Operativa Permanente della Marina Russa nel Mediterraneo, sin dalla sua creazione nel 2013, sotto il comando operativo della Flotta del Mar Nero”.
Per comprendere ancora meglio la “proiezione” russa nel “mare nostrum”, basti pensare che con i mezzi d’istanza nelle basi del Mar Nero, come ad esempio le corvette di classe Buyan, dotate di sistemi di lancio verticale 3S-14 per i missili da crociera antinave Kalibr e Oniks, con raggio massimo di 1500 chilometri, è possibile colpire obiettivi sensibili nel Mediterraneo.

La Russia nel Mediterraneo.
La Russia quindi, fortemente motivata e pronta dal punto di vista strategico-militare a fare il proprio ingresso nello scenario mediterraneo, aveva solo bisogno di un pretesto. Questo gli è stato fornito dal conflitto Siriano. Infatti, “in cambio dell’intervento nel conflitto siriano a supporto del presidente Bashar al-Assad, avvenuto nel 2015, Vladimir Putin ha ottenuto la trasformazione della base navale di Tartus da scalo commerciale e hub logistico a vero e proprio porto militare russo sul Mediterraneo. Tra il 2017 e il 2019 Putin e Assad hanno finalizzato un accordo per la concessione della base navale, a cui si è aggiunta la base aerea di Khmeimim, nelle vicinanze di Latakia, sempre sulla costa mediterranea, per un periodo di 49 anni, rinnovabili alla scadenza per successivi periodi di 25 anni, senza corrispondere alcun pagamento”(Centro Studi Internazionali – CeSI, 2020).
Questo fatto ha segnato un punto di svolta, un vero e proprio “game changer” per gli equilibri geostrategici dell’area, poiché, oltre alla dimensione offensiva e di deterrenza, la base di Tartus (sul cui adeguamento i russi hanno investito molto) costituisce anche uno “scudo” difensivo fondamentale per le unità che operano nell’area e un hub logistico che consente (senza obbligare al passaggio per il Bosforo e i Dardanelli) di ampliare il proprio raggio d’azione. Opportunità che è stata subito colta da Mosca che, approfittando di una sempre maggiore libertà di movimento all’interno del Mediterraneo, è intervenuta in vari scenari di instabilità, primo tra tutti la guerra civile in Libia, rafforzando anche le relazioni con gli altri attori allineati con Haftar tra cui, primo fra tutti, l’Egitto in funzione della sua rilevanza strategica.

Conclusioni.
La domanda che a questo punto sorge è “come incidono i mutati equilibri di forza nel Mediterraneo sugli equilibri mondiali?”.
Per capirlo bisogna tener presente alcuni fatti. Le unità della Flotta russa che hanno navigato verso la Siria trasportavano circa quattromila uomini, e cioè il più imponente dispiegamento marittimo operativo messo in campo dai tempi della Guerra Fredda. Ed inoltre, nonostante l’attuale limitatezza di uomini e mezzi da dispiegare nell’area, la Flotta russa nel Mediterraneo non è affatto una tigre di carta, ma una concreta manifestazione di una volontà politica al servizio della realizzazione di un progetto strategico. Entro alcuni anni probabilmente il gap verrà colmato, visti anche i programmi in atto, e la marina russa nel Mediterraneo potrà dispiegare il proprio potenziale quale strumento per la tutela degli interessi nazionali.
Ciò considerato e riprendendo quanto detto in apertura, la vittoria, sotto molteplici punti di vista, non solo quello militare, della Russia in Siria e la sua affermazione nell’area del Mediterraneo, conseguente al disimpegno statunitense in Medio Oriente e alla crisi dell’Europa incapace di intraprendere una politica estera comune, secondo gli analisti sta accelerando e rendendo irreversibile il processo che porterà all’affermazione di un mondo multipolare caratterizzato da un protagonismo asiatico incarnato da Mosca e Pechino: “Dopo la vittoria siriana la sfida multipolare viene lanciata su tutti i fronti: nella crisi coreana, Mosca e Pechino si ergono quali mediatori e si oppongono sia alle provocazioni missilistiche di Pyongyang sia a nuove sanzioni contro la Repubblica Democratica di Corea ma soprattutto al dispiegamento del sistema antimissile statunitense Thaad. Nonostante i toni roboanti del (ex n.d.r.) presidente Trump, gli Stati Uniti non sembrano in grado di andare oltre la retorica bellicista né di opporsi alla road map russo-cinese che prevede una denuclearizzazione progressiva della penisola coreana” (Vernole, S., in Eurasia – Rivista di Studi geopolitici, Settembre 2017).
È evidente che la teoria del “Sea Power” sviluppata dall’Ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1890, per cui il potere di una nazione è strettamente legato al dominio dei mari che la circondano, ottenuto attraverso il controllo dei principali stretti, la costruzione di basi navali e la capillare presenza della propria Marina, è ancora una chiave di lettura efficace per leggere la politica russa nel Mar Mediterraneo e le sue conseguenze a livello globale.