L’Accordo di Cotonou e le relazioni tra Europa e Africa-Caraibi-Pacifico

di Antimo Altomare

L’Ue e il gruppo di Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) hanno governato le loro relazioni dal 1975, sin dall’intesa di Lomè, attraverso una sequenza di accordi di partenariato. Il più recente di questi è l’accordo di partenariato di Cotonou, che scade nel 2020.
L’accordo di partenariato tra Unione Europea e gli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico scadrà il 29 febbraio 2020 e la nuova intesa dovrà essere raggiunta entro tale data. L’accordo di partenariato di Cotonou, meglio noto come Convenzione di Cotonou, è il quadro giuridico che regola le relazioni tra l’Europa e i 79 paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico e si basa su circa quarant’anni di partenariato. Siglato nel giugno del 2000 con una durata di 20 anni e con una clausola che prevede delle revisioni intermedie ogni cinque anni, esso rappresenta uno degli accordi più completi sottoscritti da Bruxelles con un variegato gruppo di paesi in via di sviluppo. l’accordo di partenariato si concentra sulla progressiva eliminazione della povertà (art.93 della Convenzione) e sullo sviluppo sostenibile nei Paesi ACP e Ue. E’ basato su tre pilastri basilari: cooperazione allo sviluppo, dialogo politico (con l’accordo che definisce settori e procedure per il Fondo europeo di sviluppo) e commercio (con l’Ue che accorda preferenze commerciali reciproche). Esso costituisce un accordo di rilevante importanza internazionale poiché rappresenta oltre la metà di tutti i paesi membri delle Nazioni Unite e unisce oltre 1,5 miliardi di persone.
I negoziati per la definizione del regime “post-Cotonou” sono tuttora in corso e in via di definizione poiché al momento dell’inizio delle trattative fu rilevato come un rinnovamento automatico della convenzione esistente non rappresentasse una soluzione auspicabile. Questo è dovuto principalmente al fatto che durante quest’ultimo ventennio, in un sistema internazionale sempre più multipolare, si è assistito ad un’evoluzione degli scenari regionali e globali e l’emergere di nuove sfide, ma anche nuove opportunità tra cui crescente eterogeneità nel gruppo dei Paesi ACP; l’emergere dei BRICS e l’affermazione crescente della Cina; la questione delle migrazioni, che coinvolge sempre più i rapporti ACP-UE sia gli stati ACP o il cambiamento climatico. In questo contesto pertanto gli obiettivi chiave del partenariato devono essere rivisitati per adattarsi alle nuove realtà.
Le trattative per il raggiungimento di un nuovo accordo sono iniziate il 28 settembre 2018. Il primo ciclo di negoziati, concluso nel dicembre dello stesso, ha stabilito le priorità strategiche e la struttura generale del futuro accordo: l’Ue e i paesi partner infatti hanno raggiunto una rapida intesa sull’impianto generale dell’accordo e sulle priorità strategiche da affrontare. La seconda fase, incentrata sui partenariati regionali, si è aperta invece il 4 aprile dello scorso anno.
Nonostante costituisca un accordo di rilevante importanza internazionale, politica ed economica, la sua applicazione si è rilevata difficoltosa a causa di diverse criticità in relazione agli APE; agli ambiti di migrazione,sicurezza e terrorismo che presentano una situazione più eterogenea e di conseguenza più complesso da gestire nel solo ambito della Convenzione.
Durante le negoziazioni è emerso come la questione più spinosa risultasse essere quella commerciale a causa delle richieste avanzate dai paesi africani. Negli anni scorsi infatti si è assistito ad un crescente protagonismo dell’Unione Africana, che ha avanzato la richiesta di una rappresentanza diretta per i paesi africani nelle trattative relative ai futuri accordi commerciali. L’Ua ha richiesto di poter raggiungere una negoziazione diretta con l’Ue al di fuori del quadro ACP-UE. Quest’opportunità di rafforzare il ruolo del continente africano ha non solo messo in discussione i rapporti con gli altri stati parte dell’accordo, ma ha costituito anche un fattore di divisione nel fronte africano: alcuni paesi africani, tra cui Kenya, Senegal e Uganda, hanno spinto per rimanere nell’attuale quadro di negoziazione.
In riferimento agli APE (accordo di partenariato economico), l’approccio adottato dalle istituzioni europee come semplici accordi di liberalizzazione ha incontrato una forte opposizione da parte dei paesi partner. La cancellazione di dazi e di barriere commerciali con l’Ue avrebbe avuto il rischio di aggravare le loro economie poiché i costi da sostenere per l’attuazione di tali riforme e il crollo di entrate avrebbero potuto portare gravi danni alle capacità di spesa pubblica degli stessi Paesi. Dunque i paesi del gruppo ACP si sono rifiutati di siglare nuovi accordi di partenariato economico finché l’UE non avesse messo a loro disposizione ulteriori aiuti finanziari per attutire i contraccolpi sulle loro economie derivanti della rimozione di dazi e tariffe sulle importazioni europee. La conseguenza è che solo pochissimi accordi sono stati siglati rispetto ai sei originariamente previsti con le diverse aree economiche come quello tra l’Ue e i Paesi dei Caraibi concluso nel 2008 e successivamente ratificato, invece in Africa occidentale solo a Costa d’Avorio (2008) e Ghana (2016) hanno sottoscritto un accordo. Mentre altri paesi come Namibia, Mozambico e Sudafrica hanno concluso soltanto un accordo provvisorio, un APE è stato raggiunto con i Paesi membri dell’Economic Community of West African States ma non tutti i governi hanno firmato l’accordo.
Relativamente alla questione dei flussi migratori, l’articolo 13 dell’Accordo di Cotonou introdusse la questione all’interno del partenariato Africa-UE. In particolare ciascuno Stato ACP e ciascuno Stato membro dell’Unione Europea aveva il dovere di accettare “il rimpatrio dei propri cittadini presenti illegalmente sul territorio di uno Stato membro dell’Unione europea” e veniva previsto la possibilità di concludere accordi bilaterali che avrebbero potuto obbligare i Governi ACP a riammettere all’interno del loro territorio cittadini di Paesi terzi espulsi dall’UE. Come le odierne vicende dimostrano, l’UE ha incontrato molteplici difficoltà nella cooperazione in particolare con i Governi africani nella gestione dei flussi migratori dall’Africa e questo dimostra come l’accordo in questione non è stato in grado di fornire un quadro risolutivo rispetto a questa sfida chiave che richiede un livello di collaborazione strutturale e un approccio multipartecipativo che comprenda attori internazionali, statali e non statali.
In questo contesto la proposta avanzata dall’Unione Europea è stata quella di rivedere la struttura dell’accordo adottando un sistema ad ombrello che consiste nel concludere un accordo di base comune (definito Foundation) in cui vengono enunciati i principi generali e gli obiettivi comuni e tre partenariati regionali su misura UE-Africa, Ue-Caraibi e Ue-Pacifico, sotto forma di protocolli specifici che permetteranno all’Unione europea di definire un approccio orientato ed efficace in merito a specifiche regioni e con riferimento a determinati campi strategici. Un accordo politico basato sui programmi e obiettivi di lungo periodo concordati a livello internazionale tra cui l’Agenda ONU 2030, l’Accordo di Parigi sul clima o il Programma di Azione di Addis Abeba del luglio 2015 per il finanziamento allo sviluppo per fare fronte alle presenti sfide economiche, sociali e ambientali del mondo.
In conseguenza di quanto sopra, queste criticità sono certamente oggetto delle negoziazioni in corso sulla ridefinizione dei rapporti tra UE e ACP. Al momento, è evidente che, a circa un mese dalla scadenza dell’Accordo di Cotonou, l’alternativa più consona è che la scadenza dei negoziati sia posticipata o estesa alla fine del 2020 o in ogni modo fino all’entrata in vigore di un nuovo accordo. E’evidente che in questo frangente vengono apportate delle necessarie modifiche attraverso una nuova struttura più consona alle esigenze di ciascuna regione e in relazione alle diverse questioni, tra cui quella economica-commerciale, secondo un approccio multilaterale al fine di ottenere risultati tangibili. In termini concreti, ciò significherà in particolare lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile.