Le guerre di faglia nello scontro fra civiltà

di Giovanni Caprara

Le catene di forniture e distribuzione globalizzate dell’economia mondiale dipendono dalla competizione fra grandi potenze e dalla nascente leadership dei paesi emergenti. Queste sono i punti nodali della produzione, e se un paese decide di bloccarle potrebbe paralizzare la distribuzione dei beni con la diretta conseguenza di impedirne l’uso ai fruitori e, pertanto, provocherebbe la flessione economica delle nazioni coinvolte. E’ il caso della Huawei, la quale ha, però, la possibilità di sovvertire questo ordine strategico creando una nuova catena di fornitura per aggirare il veto governativo statunitense che le impone di non vendere la propria tecnologia. Infatti il processo necessario all’azienda cinese per varare una rete alternativa, potrebbe essere l’inizio di una lenta ma inesorabile discesa della globalizzazione, in quanto limiterebbe le linee principali di distribuzione, con la conseguente nascita di catene più regionalizzate in opposizione al concetto che prevedeva di rendere più fluida l’efficienza economica. E’ una necessaria contromossa ma potrebbe produrre effetti quali slegare i sistemi economici interconnessi e dipendenti da reti commerciali, finanziarie e di informazione transnazionali. Un possibile risvolto negativo alla decisione statunitense, è proprio la diminuzione della loro stessa influenza sui circuiti finanziari mondiali derivante allo status di valuta di riserva internazionale di cui il dollaro si fregia, e che, oltretutto, consente alle sanzioni unilaterali americane di “segregare” intere economie.
Questa contrapposizione commerciale potrebbe evolversi in uno scontro tra civiltà, a differenza con quello russo il cui pensiero politico è di derivazione occidentale. E’ innegabile che ad uno stesso evento si possa assegnare un concetto che nasce dalle proprie esigenze e punti di vista: se per l’Occidente vale lo scontro tra civiltà, in Asia potrebbe essere declinato come “settario”, e nel Vicino Oriente come “Jihad”. Semantica diversa, ma che accoglie lo stesso significato in una equazione geopolitica che sintetizza una contrapposizione fra ideologie. Lo scontro fra civiltà riassume i conflitti in atto come l’estremismo islamico, le migrazioni e le guerre di faglia, ossia le crisi siriane, ucraine o la primavera araba. Ostilità che vengono originate da contrapposizioni politiche ed economiche, ma che hanno profonde derivazioni sociali e culturali, infatti lo scontro verbale fra le opposte fazioni è caratterizzato da termini quali: “barbari”, “selvaggi” ed “infedeli”. Ciò a dimostrazione di fratture antitetiche, diverse e di difficile, ma non impossibile, convivenza. Le guerre di faglia sono un modello di intervento militare nel quale gli attori coinvolti esaltano le loro derivazioni culturali e sociali tanto da trasformare i conflitti in “guerre di identità”. I decisori si esaltano negli appelli all’unità etnica, culturale e religiosa sino ad ingenerare una “dinamica dell’odio”, dove paura ed odio si alimentano l’un l’altro. Nelle guerre di faglia non si contrappongono gruppi etnici, ma civiltà, e nell’innalzamento del livello di scontro gli opposti giustificano l’eliminazione del contendente in quanto trasposto nel male assoluto. L’analisi sui nuovi equilibri di potere dimostra appieno lo scontro tra civiltà, fra questi è il protezionismo cinese, che origina dalla politica, e quello islamico, derivante dalla religione. Dopo il bipolarismo, la divisione fra stati è più netta e si caratterizza anche per aree culturali oltre che religiose, e per tal motivo le guerre sono di faglia o di frattura, ossia si generano laddove gruppi culturali si oppongono tra loro, pertanto senza una precisa area geografica.
Le alleanze potrebbero limitare tale condizione creando un gruppo od uno stato guida che possa gestire l’equilibrio fra le diverse fazioni. Il politologo Samuel Huntington individuò due livelli di conflitto tra civiltà: I conflitti di faglia ed i conflitti tra stati guida. I primi sono scontri che si verificano a livello locale a bassa e media intensità, i secondi invece si manifestano a livello globale e possono tramutarsi in guerre ad alta densità, di fatto anche con uso di armi nucleari. Una posizione che non tiene conto dell’interdipendenza globale dalla quale si genera il concetto di sistema: è un insieme di soggetti, gli stati, tra loro connessi e correlati da scambi economici, finanziari, alleanze fra aziende private e con una politica sovrapponibile, la cui variazione di uno di essi agisce e si riflette sugli altri. Di fatto, se il sistema subisce un cambiamento, questo accaduto inciderà sulle parti componenti, le quali avranno interesse comune a dialogare per recuperare lo status quo adattandosi al mutamento o limitandone gli eventuali effetti negativi. Pertanto non è un andamento lineare ma è evidentemente circolare, dove le modificazioni si trasmettono dalle singole parti, uno stato, all’intero sistema ed al contrario. Inoltre, è intrinseco al concetto stesso di sistema l’evidenza che esso non abbia azioni cagionate da un semplice agglomerato di elementi fra loro slegati, ma come un insieme composto da soggetti interconnessi in una unica rete relazionale operante su diversi livelli, da quello economico al militare. La regolare applicazione di tutti i valori e dei principi comuni ai vari stati ed a tutte le organizzazioni intergovernative e private, sono la garanzia all’equilibrio dei rapporti fra le parti sistemiche dell’intera struttura globale. Ciò dovrebbe agevolare una maggiore stabilità geopolitica fra gli stati guida ed eventualmente limitare i conflitti a quelli di faglia, perché i modelli di identità, come quelli ideologici, sono caratteristici degli esseri umani, ugualitari ma non uguali tra loro.