Le mani di Pechino sul continente africano

Una nuova colonizzazione, diversa da quella storica dell’Europa dell’Ottocento e del Novecento, ma che sostanzialmente rende ancora una volta l’Africa terra di conquista. Il neocolonialismo del Dragone: esportazione del modello cinese attraverso la c.d. “diplomazia del dollaro”.

di Leonardo Altomare –

Al centro delle politiche coloniali prima e di quelle neocoloniali all’indomani dell’indipendenza degli attori del continente, l’Africa riveste da sempre un ruolo principale nella complessa strategia geopolitica mondiale. Il cambiamento dei protagonisti sullo scacchiere africano, la presenza costante dei vecchi attori europei e sopratutto le modalità di esternazione delle interazioni dei soggetti coinvolti, consentono di identificare nella c.d. “culla dell’umanità” un pattern nel quale convergono da un lato residui di politica di potenza aggressiva delle nazioni più forti volte a mantenere condizioni di sudditanza, forme di dominio diretto ed indiretto dell’economia ed ingerenza politica e dall’altro interazioni di potere ancorate a logiche di soft power.

Soggetto protagonista nell’esercizio di tali logiche è senza dubbio la Cina. La ricchezza in termini di risorse naturali, così come il potenziale commerciale del mercato africano, rappresentano per Pechino un vero e proprio affare, basti considerare che negli ultimi 15 anni, secondo quanto riportato dal China Africa Research Initiative, i flussi annuali dei c.d. FDI (Foreign Direct Investment – Investimenti Diretti Esteri) hanno registrato un incremento costante e significativo, passando da 75 milioni di dollari nel 2003 ai 5,4 miliardi nel 2018. Nel quadro di una strategia di “potere morbido”, volendo riprendere e riproporre il termine coniato dal politologo statunitense Joseph Nye, l’interesse commerciale ed economico cinese in Africa procede di pari passo con logiche di natura geostrategica, tanto che l’approccio al continente è da considerarsi tattico nell’ottica di confronto sullo scacchiere internazionale con gli Stati Uniti e lungimirante in relazione alle future dinamiche globali che continueranno a vedere indiscutibilmente centrale il ruolo del continente in termini geografici, politici ed economici. La c.d. “diplomazia delle mascherine” cosi come gli stessi interventi in campo sanitario a favore di diversi paesi africani contro la pandemia di COVID-19 rientrano, al di là del concreto sostegno umanitario e sanitario che de facto si traduce nell’invio di materiale emergenziale, in una logica di consolidamento di quella politica silente iniziata già durante il governo di Mao allorquando furono instaurate per l’appunto le relazioni sino-africane.

La cooperazione tra i due paesi in quegli anni non fu però soltanto di natura diplomatica. Il sostegno, infatti, ai movimenti di liberazione impegnati nella lotta anti – coloniale si intersecò con un interesse di tipo economico tradotto nei primi sostanziali investimenti e concretizzatosi in importanti progetti infrastrutturali come ad esempio la Tazara, la ferrovia che connette Tanzania e Zambia inaugurata nel 1975. A supporto della tesi non è verosimile pensare che il sostegno alle indipendenze negli anni ‘60 sia traducibile nella pretesa da parte dell’ex impero Celeste di esportare modelli di democrazia universale, visto e considerato che quest’ultima trova difficile identificazione e realizzazione nello stesso modello cinese. La silente ma intensa penetrazione del paese asiatico nei comparti economici, finanziari e infrastrutturali di alcuni stati africani (cresciuta ancora più rapidamente a partire dagli anni 2000 come naturale conseguenza dell’espansione della politica del “GO OUT” del Governo cinese, ossia l’ insieme delle misure adottate a partire dalla fine degli anni ’90 volte a incentivare gli investimenti cinesi all’estero) manifesta l’esigenza di esercitare un vero e proprio colonialismo di mercato cruciale per il proprio sviluppo e per la sempre più crescente sfida globale.

Foto chinaafricaproject.com.
La natura di tale approccio è strettamente legata alla necessità di reperimento e accaparramento di materie prime e in particolar modo di nuove fonti di petrolio, ferro, rame e zinco e a dimostrazione di questa richiesta di produzione e commercio si individuano, fra i legami con i diversi stati africani, rapporti più intensi instaurati con paesi ricchi di queste risorse, quali Nigeria, Sud Africa, Repubblica democratica del Congo, Zambia e Angola. Le numerose società, le aziende e la massiccia presenza dell’imprenditoria cinese cosi come i grandi progetti infrastrutturali e gli interventi nel comparto dei collegamenti e dei trasporti rientrano, parallelamente alle potenzialità di sviluppo interno dei paesi africani e alla riduzione del tasso di povertà degli stessi, nell’ottica del modello win-win; modello nel quale ciascuno degli attori coinvolti porta avanti la propria agenda di programma senza costituire oggetto di interferenze reciproca. Questo sistema risulta ancora più appetibile agli occhi dei paesi del continente se posto in relazione con le passate politiche coloniali europee e con quelle tutt’ora presenti seppur in forma differente rispetto al passato. Basti pensare al “neocolonialismo monetario” esercitato dalla Francia attraverso il franco CFA cosi come il fenomeno del Land grabbing posto in essere da gran parte dei colossi dei paesi occidentali e non solo. In quest’ottica la presenza cinese in Africa trova sempre più terreno fertile determinando da una parte un rafforzamento dell’influenza politica a livello internazionale e dall’altra un consolidamento all’interno delle organizzazioni internazionali, poiché attraverso un’operazione di definizione e rafforzamento delle sue relazioni diplomatiche per mezzo della cooperazione economica la Cina può fare sempre più leva sull’appoggio dei Paesi africani in sedi come l’ONU.

Si potrebbe affermare dunque che attraverso lo strumento della sopra citata cooperazione in campo economico nelle vesti della c.d. “diplomazia del dollaro”, il governo cinese guardi ad un controllo radicale dei paesi che aiuta generando non solo enormi affari ma una rete di influenza strategico – politica su vasta scala. Le dinamiche sopra esposte, la natura ingente degli investimenti cosi come i prestiti facilitati con linee di credito a tasso zero e i lunghi periodi concessi nel ripagare questi capitali rendono questi ultimi sempre più appetibili ma traghettano allo stesso tempo il gigante asiatico all’acquisizione del debito verso i soggetti cui eroga finanziamenti, i quali non avendo a disposizione un surplus finanziario o attivo proprio per ripagare i capitali investiti si indebitano sino al punto di non ritorno.

Quanto analizzato rappresenta lo scenario e il presupposto ideale per potenziare la c.d. Via della Seta nell’ottica dell’ambizioso progetto One Belt,One Road, che trova nell’obbiettivo di rafforzare le relazioni con i Paesi dell’Africa Orientale, la risoluzione al nodo cruciale della c.d. Sea Road (via marittima). La crescente influenza del Dragone cinese impone a rigor di logica la necessità di un intervento da parte dei principali attori mondiali e con essa sorge spontanea l’esigenza di rivedere le strategie sinora adottate. Da un’Europa sempre più frammentata a causa del rafforzarsi dei vari nazionalismi, lontana dall’agire comune dei suoi protagonisti, focalizzati su questioni di politica interna agli States, oggi più che mai, alle prese con le delicate questioni razziali e alla ricerca di un identità politica, bisogna rendersi conto dell’importanza di ristabilire delle linee di equilibrio volte a bilanciare il quadro geopolitico internazionale, la cui simmetria risulta essere compromessa da quella che possiamo definire come una delle più imponenti operazioni politico – economiche del nostro secolo: la colonizzazione cinese dell’Africa.