Le rotte delle merci low-cost dall’Asia all’Europa: tra dazi e geopolitica

di Giuseppe Gagliano –

Le rotte globali e i porti d’ingresso in Europa.
Oltre il 70% delle merci che giungono in Europa viaggia via mare. Le navi portacontainer salpano principalmente dall’Asia orientale (Cina in primis, ma anche Vietnam, Cambogia e altri Paesi ASEAN) percorrendo la rotta attraverso l’Oceano Indiano e il canale di Suez, per poi approdare ai grandi porti del Mediterraneo e del Nord Europa. In questo tragitto marittimo la Cina ha investito strategicamente: imprese cinesi, statali e private, hanno acquisito partecipazioni in almeno otto porti europei (in Belgio, Francia, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna) negli ultimi anni, inserendosi nella cosiddetta Nuova Via della Seta Marittima. Emblematico è il caso del Pireo (Grecia), dove il gigante cinese COSCO controlla il porto dal 2016 rendendolo uno dei maggiori hub container d’Europa (oltre 4,8 milioni di TEU movimentati nel 2023). Dal Pireo, tramite l’asse ferroviario balcanico, le merci cinesi risalgono il continente. Anche i colossi portuali del nord, Rotterdam e Anversa-Bruges, restano porte d’accesso cruciali per i flussi asiatici, con volumi annui che superano i 13 milioni di TEU.
Questi numeri danno l’idea dei grandi flussi di merci asiatiche che entrano nel mercato unico. Le rotte tradizionali prevedono lo sbarco nei porti maggiori e il successivo inoltro via terra o feeder marittimi verso i diversi Paesi UE. Esistono però anche percorsi alternativi e triangolazioni utilizzati per motivi geopolitici o tariffari: ad esempio la Turchia, legata all’UE da un’unione doganale, è sempre più sfruttata come ponte. Pechino sta investendo nella produzione e assemblaggio in Turchia di beni cinesi destinati all’Europa, così da sfruttare l’accesso tariffario agevolato al mercato comunitario. Un caso recente riguarda il settore auto: il produttore cinese Chery avrebbe aumentato la produzione di veicoli elettrici in Turchia proprio per aggirare i dazi UE sulle auto “made in China”, pari al 27% circa (17-21.3% di sovrattassa anti-dumping oltre al 10% standard). Attraverso il confine terrestre turco-bulgaro questi prodotti possono poi entrare nel circuito europeo senza pagare dazi aggiuntivi, sfruttando le maglie dell’accordo doganale. Bruxelles segue con attenzione tali manovre e ha dichiarato che sarà pronta a intervenire se queste triangolazioni dovessero distorcere la concorrenza interna.
Un discorso analogo vale per la rotta Cina–Sudest asiatico–Europa: ad esempio, merci cinesi possono essere riesportate via Vietnam o Malesia verso l’UE con certificazioni d’origine alterate, fenomeno che le autorità europee cercano di individuare con controlli incrociati e cooperazione internazionale. Anche le vie ferroviarie attraverso l’Eurasia (la “Belt” continentale della Belt and Road) hanno conosciuto uno sviluppo negli scorsi anni, con treni merci diretti dalla Cina all’Europa centrale. Tuttavia fattori geopolitici recenti, come la guerra in Ucraina e le tensioni Russia-UE, hanno reso meno praticabili queste rotte terrestri settentrionali, spingendo ancora più traffico sulle rotte marittime meridionali (Mediterraneo) e sulle triangolazioni via paesi terzi amici (Turchia, Serbia, ecc.).

Il ruolo del porto di Napoli nel traffico dall’Asia.
Lo scalo partenopeo, pur non figurando tra i primi hub europei per volumi, occupa una posizione strategica nel Mediterraneo centrale. Nel 2022 il porto di Napoli ha movimentato circa 684 mila TEU, in crescita del +4,8% rispetto all’anno precedente. Si tratta di un traffico rilevante per l’economia del Mezzogiorno, ma modesto se confrontato con i grandi porti di transhipment italiani come Gioia Tauro (Calabria), che supera i 2,7 milioni TEU ed è il vero ponte per i container asiatici nel Mediterraneo occidentale. Napoli invece funge più che altro da scalo gateway per l’import-export regionale: le merci asiatiche destinate al mercato italiano centro-meridionale possono sbarcare qui, evitando il passaggio dai porti del Nord Italia.
Negli anni scorsi Napoli era entrata nel mirino dei player cinesi della logistica. Il gruppo COSCO (China Ocean Shipping Company) aveva acquisito il 50% del principale terminal container partenopeo (Conateco). Tuttavia nel 2016 COSCO ha deciso un clamoroso dietrofront: ha venduto la propria quota a un’azienda italiana (MSC/Marinvest) per concentrarsi su porti ritenuti più strategici, in primis il Pireo. L’operazione, del valore simbolico di appena 2 milioni di euro, ha segnato il disimpegno cinese da Napoli in favore di investimenti in Grecia (acquisto del 51% del Pireo per 320 milioni). Ciò nonostante il porto di Napoli continua a essere un tassello importante nelle rotte mediterranee: grazie anche alla Naples Shipping Week e a progetti di rilancio, ambisce a intercettare una quota maggiore dei traffici Asia-Europa che solcano il Tirreno. La posizione geografica resta infatti favorevole, a metà strada tra Suez e i mercati europei occidentali, e le sinergie con il vicino scalo di Salerno e con l’Interporto di Nola possono potenziare il ruolo campano come piattaforma logistica. L’ostacolo principale rimane la competizione con porti hub più grandi e meglio collegati alle reti TEN-T europee. Inoltre, l’uscita dell’Italia dal memorandum sulla Via della Seta (attualmente in discussione) potrebbe ridurre l’appeal di Napoli presso investitori cinesi, spingendoli verso scali di Paesi più allineati con Pechino.

La guerra commerciale USA-Cina e i dirottamenti verso l’Europa.
La trade war tra Stati Uniti e Cina, esplosa sotto l’amministrazione Trump e proseguita a fasi alterne, ha avuto un effetto collaterale: riorientare parte dell’export cinese verso l’Europa. Quando Washington ha imposto dazi proibitivi (fino a un 54% cumulato su molti prodotti cinesi), Pechino ha cercato mercati alternativi per assorbire il surplus di produzione. Un’alta funzionaria del Vietnam Trade Office in Europa avverte che a causa dei dazi reciproci USA-Cina si è creato un eccesso di offerta cinese che “potrebbe essere dirottato sul mercato europeo”. Bruxelles monitora attentamente questa dinamica: alcune categorie merceologiche cinesi sono sotto osservazione speciale, poiché considerate a rischio di flusso anomalo verso l’UE in seguito alla chiusura del mercato USA. In particolare, i prodotti sorvegliati includono:

– Acciaio e metallurgia
– Elettronica di consumo e apparecchiature elettriche
– Pannelli solari
– Turbine eoliche

Le istituzioni comunitarie hanno dichiarato di essere pronte a difendere il mercato europeo da eventuali pratiche sleali. Ciò potrebbe tradursi in ispezioni doganali rafforzate, contingentamenti o dazi antidumping qualora si rilevassero esportazioni anomale massicce. Un precedente storico conferma i timori di Bruxelles: nel 2017, dopo che gli Stati Uniti chiusero le porte all’acciaio cinese, le importazioni di acciaio dalla Cina verso l’UE subirono un’impennata. La reazione fu l’introduzione di quote e dazi di salvaguardia da parte europea (strumenti previsti dal WTO) per evitare il collasso dei prezzi interni.
Dal punto di vista dei numeri, la “cura Trump” ha modificato i flussi globali. Nel 2019 le esportazioni cinesi verso gli USA calarono bruscamente, e quasi il 20% di quel volume perso fu compensato da maggior export dal Vietnam verso gli Stati Uniti, segno che molte forniture vennero ricanalizzate attraverso Paesi terzi. Parallelamente, l’Unione Europea è diventata il principale sbocco alternativo: nel 2022 il deficit commerciale UE verso la Cina ha toccato il record di 397 miliardi di euro, segno di importazioni cinesi in forte aumento. Nel 2023 il deficit UE si è ridotto a 291 miliardi (ancora elevatissimo, ma in calo del 27% sul 2022), complice un rallentamento generale del commercio e politiche industriali europee più difensive. La Cina resta comunque il primo fornitore extra-UE in assoluto, con il 20,5% delle importazioni esterne dell’Unione. Anche l’Italia riflette questa tendenza: dopo anni di crescita, le importazioni italiane dalla Cina nel 2023 sono crollate del 17,8% in valore, mentre aumentavano quelle da mercati alternativi più vicini (es. Turchia +6,4%, India +7,6%). Ciò suggerisce che parte delle forniture cinesi sono state sostituite da altri Paesi asiatici o da produzioni locali, in un contesto di maggior cautela verso Pechino.
Intanto, la “guerra dei dazi” tra Cina e occidente si arricchisce di nuovi capitoli che interessano da vicino l’Europa. Bruxelles ha avviato nel 2023 un’indagine anti-sussidi sulle auto elettriche cinesi, sfociata nella proposta di dazi compensativi per contrastare il dumping. La reazione di Pechino è duplice: da un lato contestare la mossa in sede WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), dall’altro aggirarla aumentando la produzione in paesi terzi come appunto la Turchia. È una partita delicata: “Al momento è presto per valutare l’impatto di questi investimenti [cinesi in Turchia] sulla competitività dell’industria europea”, ha ammesso il commissario UE Valdis Dombrovskis, sottolineando che la situazione è in evoluzione e Bruxelles non resterà a guardare passivamente.

Delocalizzazioni e nuove strategie della supply chain sino-asiatica.
La pressione dei dazi e l’incertezza geopolitica hanno portato molte aziende a rivedere le proprie catene di fornitura globali. In realtà, questo processo era iniziato prima: da oltre un decennio l’aumento dei costi di produzione in Cina (salari in crescita, normative ambientali più stringenti) spinge le imprese a delocalizzare le fasi più labour-intensive in paesi limitrofi a minor costo. La guerra commerciale USA-Cina e la pandemia hanno agito da acceleratori. Vietnam in primis ha beneficiato del fenomeno: già nel 2019 fu capace di rimpiazzare un quinto dell’export cinese verso gli USA con proprie esportazioni, talvolta si trattava però di un semplice rebranding – prodotti cinesi transitati in Vietnam e riesportati come Made in Vietnam. La pratica del “country of origin swap” (cambio del paese di origine sui documenti) è diventata oggetto di indagine da parte delle dogane americane ed europee, dato che configura una frode commerciale. Le autorità vietnamite stesse hanno messo in guardia le aziende locali dal fare da paravento alle merci cinesi per evitare sanzioni, preoccupate che il marchio Made in Vietnam possa perderci in reputazione.
Allo stesso tempo si assiste a un genuino spostamento di capacità produttiva fuori dalla Cina. Giganti dell’elettronica come Samsung hanno trasferito in Vietnam intere linee di assemblaggio (smartphone, TV), tanto che oggi la Corea del Sud è il principale investitore estero nel Paese. Colossi taiwanesi che producono per marchi occidentali, come Foxconn (fornitore di Apple), hanno aperto stabilimenti in Vietnam per realizzare Apple Watch e AirPods destinati all’export. Anche settori tradizionali come il tessile-abbigliamento hanno visto un decentramento: molte fabbriche cinesi hanno aperto succursali in Cambogia e Bangladesh, approfittando dei bassi salari locali e, nel caso della Cambogia, di regimi commerciali preferenziali con l’UE (il programma EBA – Everything But Arms, che fino a poco fa garantiva zero dazi per i paesi meno sviluppati).
In parallelo la Cina ha promosso accordi regionali come il RCEP (Partenariato Economico Globale Regionale), entrato in vigore nel 2022, che unisce 15 nazioni Asia-Pacifico (inclusi Cina e ASEAN) in un’area di libero scambio. Ciò consolida le filiere “China+1”, in cui una parte della produzione avviene fuori dalla Cina ma mantenendo la regia e i componenti chiave cinesi. Il risultato è che l’ASEAN è divenuto il primo partner commerciale di Pechino: nel 2023 il Sud-est asiatico ha superato sia gli USA sia l’UE come principale mercato di destinazione dell’export cinese. Ad esempio, Vietnam e Malesia sono oggi tra i primi acquirenti di componenti e semilavorati cinesi, poi integrati in prodotti finiti destinati all’Occidente. In pratica, la multinazionale cinese sposta l’assemblaggio finale o parti del processo produttivo in paesi terzi, cosicché il prodotto finito non risulti ufficialmente “made in China” ed eviti i dazi punitivi. Questa strategia può coinvolgere anche colossi occidentali: per continuare a servire il mercato americano senza i sovrapprezzi imposti ai prodotti cinesi, alcune aziende USA ed europee fornitrici in Cina hanno delocalizzato impianti in Vietnam, Thailandia o Messico.
Un altro stratagemma sono le triangolazioni documentali: si spediscono le merci cinesi in un paese intermedio dove vengono ritoccate le carte di origine. Casi concreti sono emersi grazie al lavoro investigativo delle autorità: in Italia ad esempio, un’azienda importatrice è stata scoperta mentre introduceva tonnellate di acciaio cinese spacciandolo per coreano allo scopo di eludere i dazi anti-dumping europei sul prodotto originario della Cina. Il trucco consisteva nel presentare in dogana certificati d’origine falsificati indicanti la Corea del Sud come paese di produzione, evitando così i pesanti dazi UE che gravano sull’acciaio cinese (misure protezionistiche adottate per difendere l’industria siderurgica europea). Questo caso, emerso a Ferrara nel 2024, ha portato la Guardia di Finanza a sequestrare beni per oltre 3,3 milioni di euro, l’ammontare dei dazi evasi, e dimostra fino a che punto alcune imprese siano pronte a spingersi pur di aggirare le barriere tariffarie.

Implicazioni geopolitiche e sicurezza economica per l’Europa.
L’intreccio tra rotte commerciali e interessi geopolitici è sempre più evidente. Da un lato, l’Europa beneficia dell’offerta di beni a basso costo provenienti dall’Asia, che alimentano la grande distribuzione, l’industria manifatturiera e contribuiscono a tenere bassi i prezzi per i consumatori. Dall’altro, una dipendenza eccessiva da queste importazioni può rappresentare un rischio di insicurezza economica. La pandemia di Covid-19 ha suonato un campanello d’allarme sulla vulnerabilità delle supply chain globali: interi settori europei si sono trovati esposti alla mancanza di forniture cinesi (dai componenti elettronici ai dispositivi medici). In risposta, l’UE sta perseguendo una strategia di “de-risking” verso la Cina, diversificare le fonti di approvvigionamento senza però arrivare al decoupling completo. Ciò implica promuovere produzioni interne o da paesi partner alternativi e, allo stesso tempo, sorvegliare meglio ciò che entra nei confini europei.
I controlli doganali alle frontiere esterne dell’UE sono diventati uno strumento di tutela economica oltre che di legalità. Le autorità doganali, in collaborazione con organismi come OLAF (l’Ufficio europeo antifrode) e le forze di polizia economica nazionali, hanno intensificato le attività di ispezione su container e merci sospette. In Italia la Guardia di Finanza è in prima linea: oltre al caso dell’acciaio a Ferrara, di recente a Trieste è stato smantellato un sistema fraudolento in cui tre società cartiere slovene importavano ingenti quantità di tessuti e plastiche dalla Cina, usufruendo del regime di deposito franco per poi rivenderle evadendo l’IVA per oltre 1,3 milioni di euro. Operazioni simili sono state condotte a Prato (sequestro di merce di contrabbando cinese per 2,2 milioni) e in altri snodi logistici, spesso in coordinamento con la Procura Europea (EPPO) quando il frode coinvolge più Paesi UE. L’uso di società fantasma, fatture false e transiti in zone franche rientra nel kit dei trafficanti per far entrare merci extra-UE eludendo dazi e imposte. Le autorità italiane hanno segnalato anche flussi illeciti di prodotti insalubri o contraffatti: ad esempio, tonnellate di giocattoli e fuochi d’artificio dalla Cina sequestrati nei porti di Napoli e Genova, a testimonianza che i traffici dal Far East includono spesso partite illegali che viaggiano insieme a quelle regolari.
Dal punto di vista geopolitico, il dominio della Cina sulle rotte commerciali e la sua penetrazione nelle infrastrutture critiche sollevano interrogativi in Europa. Il controllo cinese del porto del Pireo e di terminal in altri scali europei viene osservato con attenzione: potrebbe tradursi, secondo alcuni analisti, in un potere di leva strategica (si pensi all’eventualità di tensioni politiche che portino a rallentare selettivamente i flussi commerciali). Finora tali timori non si sono concretizzati in azioni ostili, e anzi l’efficienza gestionale cinese ha portato benefici in porti come il Pireo (traffico triplicato in sei anni). Tuttavia l’UE, memore anche delle crisi passate (es. il blocco di Suez del 2021), ha inserito la resilienza delle catene di approvvigionamento e la protezione delle infrastrutture critiche nell’agenda di sicurezza economica. Ciò significa ridurre dipendenze unilaterali (ad esempio stimolando la produzione europea di componenti strategici come microchip, batterie, materie prime critiche) e garantire trasparenza nei flussi commerciali.

In conclusione, l’afflusso di merci low-cost da Cina e ASEAN verso l’Europa rappresenta un fenomeno dai risvolti molteplici. Sul piano economico, offre opportunità e sfide: opportunità di scambi più intensi e prezzi competitivi, ma anche concorrenza aspra per le industrie europee esposte e rischi di dumping. Sul piano geopolitico, queste rotte commerciali sono diventate arterie vitali su cui si intrecciano cooperazione e rivalità tra potenze. La guerra dei dazi tra Washington e Pechino ha deviato una parte del traffico verso l’Europa, rendendo il Vecchio Continente un campo di confronto commerciale indiretto. L’Europa, dal canto suo, cerca un difficile equilibrio: difendere la propria sovranità economica senza rinunciare ai benefici della globalizzazione. I dati più recenti indicano un lieve riequilibrio (import cinesi in calo nel 2023), ma la situazione è fluida. Sarà fondamentale mantenere alta la guardia, con controlli doganali efficaci e politiche commerciali prudenti, per evitare che triangolazioni opache e escamotage vanifichino gli sforzi di equità nel commercio internazionale. Come ha affermato un funzionario europeo, l’UE “sarà pronta a difendere il proprio mercato” se necessario: un messaggio chiaro che la stagione dell’ingenuità nei confronti delle merci a basso costo è finita, e che ogni container proveniente dall’Oriente racconta ormai anche una storia di geopolitica e sicurezza.