Libano. Dalle proteste contro la corruzione al Fmi. E in lontananza lo spettro della guerra civile

di Enrico Oliari

Dopo 9 mesi di proteste dure contro la corruzione e il caro vita, spesso con scontri e vittime, e il susseguirsi di governi il Libano è letteralmente in ginocchio, con la Lira che ha perso il 70% del suo valore e lo Stato non in grado di pagare il proprio debito e gli stipendi pubblici.
Già lo scorso 7 marzo il primo ministro Hassan Diab, salito al potere in gennaio, aveva annunciato in conferenza stampa l’incapacità del paese di pagare il debito estero in scadenza di 1,2 miliardi di dollari, ma ad aprile sono scaduti senza essere rimborsati 700 milioni di dollari di debito e 600 milioni scadranno questo mese.
A poco sono valse quindi iniziative come quella del procuratore finanziario Ali Ibrahim di congelare gli asset di diverse banche del Libano, come neppure gli sforzi pregressi della Conferenza economica per lo sviluppo, per le riforme e con le imprese (Cedre) di salvare il Paese dei cedri mettendo sul piatto 11 miliardi di dollari.
Anche ieri si sono svolte pesanti manifestazioni specialmente a Tripoli, dove i manifestanti hanno sparato fuochi d’artificio contro la polizia che caricava, auto sono state date alle fiamme e negozi saccheggiati, ma è poco o nulla rispetto a quanto si vedrà dopo che il governo avrà trattato con il Fondo monetario internazionale, che darà soldi in cambio di un piano di rientro fatto di lacrime e sangue.
Il Fmi è sostanzialmente l’ultima speranza per il Libano, paese dalle mille contraddizioni ed in mano per metà ai sauditi e per l’altra metà agli iraniani, ma l’istituto diretto dalla bulgara Kristalina Georgieva potrebbe chiedere ai 4,5 milioni di abitanti ad esempio una drastica svalutazione della Lira al fine di bloccare le importazioni e di favorire le poche esportazioni, di chiudere le frontiere con la Siria (dove combattono gli Hezbollah e da dove arrivano le armi dall’Iran) per contrastare fattivamente il contrabbando, di imporre ancora più tasse per aiutare i ceti deboli, di ricorrere ad un bail-in che prelevi il 33% di tutti i conti, il 55% per quelli di valore superiore ai 500mila dollari (il 2% del totale) e il 70% per i depositi con valore superiore al milione di dollari (1% del totale). Inoltre le somme messe a disposizione dal Fmi saranno trimestrali o addirittura mensili per monitorarne l’effettivo utilizzo.
Iniziative che aggiungeranno proteste alle proteste, con un ceto medio sempre più impoverito e costretto a pagare anni di corruzione e di furto del denaro pubblico. Un futuro che per non pochi analisti puzza già di guerra civile.

Hassan Diab.