di Giuseppe Gagliano –
A un anno dall’uccisione di Hassan Nasrallah, Hezbollah riafferma il rifiuto di cedere le armi. Il suo successore designato, Hashem Safieddine, è stato a sua volta ucciso in un raid israeliano poche settimane dopo. Senza i due leader storici, il movimento sciita ha visto erodersi parte della capacità militare e della presa sulla politica libanese, ma il nuovo leader Naim Qassem ha ribadito davanti a migliaia di sostenitori a Beirut che “le armi non si abbandonano” e che la resistenza continuerà.
Il governo guidato da Nawaf Salam ha elaborato un piano di disarmo partendo dal Sud del Paese, su spinta statunitense e per contenere la minaccia di ulteriori raid israeliani. Tuttavia, la base sciita di Hezbollah e il sostegno iraniano rendono l’operazione politicamente e militarmente delicata. Il veto alle commemorazioni non ha impedito cortei e celebrazioni, con immagini di Nasrallah e Safieddine proiettate sulla roccia di Raouche, sfidando le autorità.
Nonostante l’accordo del novembre 2024 che ha chiuso oltre un anno di guerra aperta con Israele, lo Stato ebraico continua bombardamenti mirati nel Sud Libano e mantiene truppe in cinque aree considerate strategiche. L’episodio dei cercapersone esplosivi, utilizzati da Israele per colpire quadri di Hezbollah ma costato vite civili, ha lasciato profonde cicatrici nella società libanese.
Hezbollah resta una delle principali forze politiche del Paese, rappresentante della comunità sciita, e gode ancora di consenso popolare come forza di “resistenza” all’occupazione. Il tentativo di disarmarlo mette in gioco non solo la sicurezza dei confini, ma anche la fragile architettura confessionale che regge lo Stato libanese.
La determinazione di Qassem e la presenza iraniana indicano che il disarmo non sarà imminente. L’instabilità del cessate il fuoco e le operazioni israeliane mantengono alta la possibilità di nuove escalation, con ricadute dirette sugli equilibri interni e sul già fragile sistema economico libanese.












