di Giuseppe Gagliano –
Nel silenzio di una tregua mai veramente rispettata, i jet israeliani tornano a colpire in Libano. Aerei “nemici”, come li definisce la stampa libanese, hanno sorvolato i cieli di Bekaa e del Sud, lanciando missili contro postazioni di Hezbollah. Il messaggio è chiaro, diretto, brutale: Israele non intende rinunciare alla libertà d’azione, anche a costo di incrinare il cessate il fuoco del 27 novembre 2024.
Eppure, dietro ogni missile c’è molto più di un attacco militare. C’è la conferma di una strategia di lungo periodo, fatta di deterrenza attiva, superiorità tecnologica e contenimento proattivo. Per Tel Aviv, Hezbollah resta il nemico numero uno al Nord. L’arsenale del gruppo, oltre 100mila razzi secondo le stime più prudenti, rappresenta una minaccia sistemica. E ogni tregua, per quanto necessaria, è solo una pausa tattica.
Dopo l’accordo di novembre,i combattimenti si sono ridotti, ma non sono mai cessati. Lo Stato ebraico ha mantenuto, contro l’accordo, cinque posizioni chiave in territorio libanese. Sono le “alture dell’osservazione”, da cui si controllano le aree urbane israeliane del Nord. Hezbollah, dal canto suo, ha evitato scontri frontali ma ha continuato a rifornire le proprie unità e a mantenere una rete logistica nel Sud. Il confine è rimasto un confine armato, pronto ad accendersi.
I raid israeliani del 20 marzo non nascono nel vuoto. Sono la risposta, secondo l’IDF, a “violazioni del cessate il fuoco” da parte di Hezbollah. Ma vanno anche letti come segnali strategici: a Hezbollah, che viene ammonito a non alzare la soglia della provocazione; e agli Stati Uniti, che da mesi lavorano a una mediazione tra Libano e Israele, affinché non abbiano illusioni sul prezzo politico della stabilità.
Il paradosso del momento è proprio questo: mentre si torna a colpire, si parla di pace. L’uscita pubblica della parlamentare libanese Paula Yacoubian, che ha auspicato un dialogo con Israele, è solo la punta visibile di un iceberg più profondo. Nell’opinione pubblica libanese, specie tra i cristiani maroniti e la borghesia sunnita, cresce il desiderio di porre fine a decenni di guerra a bassa intensità. Ma la strada è irta.
Il premier Nawaf Salam è contrario a qualsiasi accordo, mentre il nuovo presidente, Joseph Aoun, si muove in equilibrio. L’ex generale ha una visione pragmatica: disinnescare Hezbollah politicamente, rafforzare l’esercito, evitare nuove guerre. E infatti negli ultimi giorni 4.500 giovani si sono arruolati nelle Forze Armate. Un dato non casuale, che indica una volontà di Stato di riprendere il controllo.
Ma Hezbollah non è solo un partito armato. È un braccio operativo dell’Iran nel Levante. E mentre Teheran guarda a Gaza, all’Iraq e al Mar Rosso, il Libano resta un pilastro della sua strategia. La leadership del Partito di Dio, pur consapevole delle difficoltà interne, non può permettersi un disarmo, né una pace separata. Cedere significherebbe perdere centralità regionale. Per questo Naim Qassem ha ribadito che le armi non saranno consegnate all’esercito libanese.
Il punto vero è che Hezbollah non è più soltanto una milizia: è uno Stato nello Stato. Con proprie scuole, ospedali, intelligence, logistica. Israele lo sa. E sa anche che ogni sua mossa viene letta in chiave più ampia, come parte di uno scontro a rete che lega Beirut, Gaza, Sanaa e Teheran.
In questa cornice entra in gioco anche l’Arabia Saudita. Mohammed bin Salman osserva il Libano con rinnovata attenzione. Per Riad, Beirut è una leva diplomatica: un punto di pressione sull’Iran e, forse, un avamposto per testare un nuovo modello di convivenza arabo-israeliana. Ma il principe è cauto. La normalizzazione con Israele è al momento congelata, ufficialmente per via di Gaza, ufficiosamente per motivi interni. Tuttavia, il Libano offre una chance indiretta: favorire il disarmo di Hezbollah, senza passare dal riconoscimento formale.
Il cessate-il-fuoco non è pace. È una linea sottile che regge finché conviene a entrambi i contendenti. Gli attacchi israeliani sono il sintomo di una strategia di contenimento che si regge su superiorità tecnologica e impunità operativa. Ma anche Israele sa che, senza un accordo politico in Libano, ogni tregua sarà temporanea.
Il futuro dipenderà dalla tenuta del nuovo esercito libanese, dalla capacità di mediazione americana e francese, ma soprattutto dalla volontà, ancora tutta da verificare, dei libanesi di trasformare il confine Sud da trincea a confine di pace.